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Ricorre spesso, a proposito di Vladimir Putin, la metafora della partita a scacchi, secondo il cliché che vuole qualunque russo abile giocatore di questo sport. Stereotipo, certo, in buona misura corrispondente al vero, visto che la disciplina è insegnata nelle scuole ed il paese ha espresso campioni mondiali, uno dei quali, Garry Kasparov, è stato tra i primi oppositori aperti del Presidente russo, e vive da tempo esule negli Stati Uniti.

Non si hanno notizie di Putin scacchista. È invece sicuro che è un appassionato Judoka, e di alto livello. Il Judo è la disciplina che ha permesso a uno scapestrato ragazzo di strada di Leningrado di orientare le sue energie e la sua rabbia sino a diventare il presidente di una superpotenza.

Gli scacchi sono il gioco sovrano per eccellenza, tutto incentrato su uno scontro di forze, inizialmente paritarie e apertamente schierate. Prevede il sacrificio progressivo di una serie di personaggi minori per arrivare alla paralisi del detentore del potere, il Re. È la quintessenza dei giochi a somma zero: la vincita di un giocatore coincide esattamente con la perdita dell’altro. Ma è anche un wargame, un confronto a distanza tra i veri giocatori della partita, che, divisi dalla scacchiera, non rischiano nulla in proprio: intelligente, razionale, pulito, totale, crudele.

Il Judo non è esercizio intellettuale, ma uno sport di contatto. Agonistico, ma con aspetti cooperativi.

La prima mossa che si insegna, è a cadere senza farsi male, e poi a rialzarsi. L’essenza del Judo consiste nello sfruttare la forza degli avversari trasformandola in debolezza. Non vince il più forte, ma il più flessibile. Non perde il più debole, ma il più irruento, il più sicuro di sé, il più sbilanciato. La bravura del judoka si esprime, assai più che nella vittoria pura e semplice, nella eleganza dei gesti che ad essa conducono.

Anche il judo prevede che qualcuno perda, beninteso, ma in modo onorevole, e senza farsi troppo male. L’abitudine di Putin di definire “partners” i suoi interlocutori stranieri non è uno sfottò, come spesso si crede, ma nasce da questa abitudine al rispetto rituale dell’avversario del confronto. Quando si esibisce sul tatami pratica soprattutto il randori, un combattimento simulato e cooperativo.

Il Judo è una disciplina essenzialmente difensiva, e il suo fondatore, Kanō Jigorō, la definì secondo due linee: “Massima Efficacia con il Minimo Sforzo” e “Prosperità e Mutuo Benessere”.

Intendiamoci, tra una filosofia e le sue applicazioni pratiche ci sono spesso grosse differenze, e nessuno vuole negare che Putin sfrutti tutta la sua forza quando è in vantaggio, e che abbia schiacciato i suoi oppositori senza alcuno scrupolo né particolare rispetto.

Ma, nei suoi discorsi ufficiali, pur vantando le forze di cui dispone la Federazione Russa, e non lesinando toni minacciosi, è persino disarmante nella sincerità con cui riconosce – con una dovizia di dati e cifre, che è particolarmente impressionante per l’ascoltatore italiano, abituato a politici che parlano ignorando sia il quidche il quantum – lo sfavorevole divario militare, tecnologico, demografico, di PIL, con gli Stati Uniti. Una cosa che un leader sovietico non avrebbe ammesso mai.

Non è modestia: semplicemente, la disparità di forze, nell’ottica del judoka, non è un problema, ma addirittura una opportunità.

I negoziatori americani farebbero bene a tenere a mente tutto questo, quando il 10 gennaio si incontreranno con i loro omologhi russi, per parlare dell’Ucraina e della sicurezza in Europa.  Sbaglierebbero se pensassero di stare a giocare una partita a scacchi, mentre gli interlocutori fanno judo.

Perché, se c’è un Paese che ha fatto della distinzione tra “vincenti” e “perdenti” una filosofia esistenziale, sono gli Usa. Come pure gli Usa hanno teorizzato la guerra come war game, con il minimo contatto possibile sul terreno. Eppure, i suoi maggiori errori degli ultimi venti anni sono stati dettati proprio da questa over-confidence: una filosofia strategica basata sulla preponderanza della forza come fattore di deterrenza è costata moltissimo e non ha dato i risultati sperati.

Putin ha invece ottenuto spesso, secondo gli insegnamenti del Maestro Kanō, il “massimo risultato con il minimo sforzo”. Ha conquistato la Crimea senza colpo ferire, e bloccato l’espansione Nato in Georgia e Ucraina con una minima applicazione di forza. Due manovre militari, nella primavera e nell’autunno 2021, gli hanno guadagnato l’attenzione che reclamava per le sue “linee rosse”.

Una serie di colloqui diretti con Biden – l’uomo che si è presentato col motto “America is back, diplomacy is back” – gli hanno ottenuto di chiarire le sue posizioni, e anche di essere riconosciuto come interlocutore imprescindibile.

Quale sarà il risultato dei negoziati? Sgombrato il campo dagli equivoci (la Nato non sta facendo entrare l’Ucraina, e la Russia non ha intenzione di invaderla, ribadite le posizioni di principio, alla fine il vero tema è se l’Occidente accetterà o meno di includere la Russia nel sistema di sicurezza europeo. O meglio, di tener debito conto, nelle sue future mosse, delle preoccupazioni russe per la propria sicurezza.

L’altra definizione di Kano è che il Judo è “Prosperità e Mutuo Benessere”: la guerra delle sanzioni e controsanzioni ha fatto male sia alla Russia che all’Europa, senza apportare significativi cambiamenti.

Soprattutto per l’Ucraina, che si è stancata di fare la scacchiera per conto terzi, e i cui pedoni emigrano in massa. Riceverà ancora il metadone degli aiuti, ma è forza constatare che il paese, a otto anni dalla rivolta di Majdan, non è ancora in grado di camminare sulle sue gambe, ed è addirittura scivolato nella classifica dei paesi più poveri d’Europa, in termini di reddito nazionale lordo, ultimo addirittura dopo la Moldavia.

Un articolo sul New York Times di Natale conteneva un attacco molto severo al presidente Zelensky, che, lui stesso un comico, si è circondato di personaggi del mondo dello spettacolo nel suo entourage. Si mette in dubbio la competenza della leadership del paese a guidarlo in un momento di forte crisi, e i suoi metodi sempre più autoritari.

Non è esattamente il tipo di endorsement che ci si aspetterebbe da un alleato, no?

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