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Dei 2 trilioni di dollari che il Sipri registra come spesa militare globale, l’1,2 per cento sono iraniani: il dato significa poco in sé, ma molto di più se si considera che questo porta Teheran al quattordicesimo posto al mondo per investimenti nel settore Difesa. La prima volta da vent’anni, grazie a un aumento dell’11 per cento nel 2021.

L’investimento militare è ancora più importante se letto in controluce. Da quando sono state reintrodotte le sanzioni statunitensi a seguito della scelta dell’amministrazione Trump di uscire dall’accordo nucleare Jcpoa, l’Iran ha stretto i ranghi. Alla campagna di “massima pressione” di Washington — confermata nella sostanza da Joe Biden, nonostante i tentativi ancora in corso di ricomporre l’intesa — Teheran ha risposto con la massima resilienza.

L’industria bellica iraniana ha ricevuto spinta e investimenti nonostante il Paese soffra una crisi economica, anche a causa della pandemia e delle complicazioni sanzionatorie sulle esportazioni di materie prime energetiche (principale asset nazionale). Una condizione che ha anche creato proteste interne, legate all’insofferenza dei cittadini, soprattutto i più giovani, davanti a queste incongruenze sulle priorità che il governo deve seguire.

Per la strategia iraniana l’industria militare è centrale. Se la teocrazia pensa di controllare ancora tutto la collettività interna con l’ideologia, le armi sono un vettore per costruire influenza esterna. Le tecnologie belliche sono un fattore di deterrenza in sé, ma vengono anche fornite al network di milizie sciite attraverso cui la Repubblica islamica ha costruito la trama delle relazioni esterne nella regione e altrove — per esempio, Hezbollah (realtà libanese collegata agli iraniani a doppio filo, ideologico ed economico) è diffusa anche in Sudamerica e Africa.

Le armi sono prodotte da attività economiche anche collegate ad alcune componenti dei Pasdaran, che sono quelle che spingono (politicamente e dal punto di vista narrativo) la continuazione di un livello di conflitto a medio-bassa intensità contro l’Occidente — impersonato dagli Stati Uniti. Conflitto che serve anche per aumentare vendita e sviluppo di armi, dunque investimenti in quell’industria in cui quelle componenti del corpo militare teocratico hanno maggiori interessi.

Il mondo delle armi descrive anche una realtà interna dunque, quella che da anni si scontra con la fazione più pragmatica — che sostanzialmente ha carattere trasversale a Teheran, sebbene sia maggiormente rappresentata dai riformisti della precedente presidenza di Hassan Rouhani, sostituito dal conservatore Ebrahim Raisi. Ma il rafforzamento è anche parte di una volontà di mostrarsi più forte (deterrenza dunque) all’interno di alcune dinamiche diplomatiche che era inevitabile che si sarebbero innescate.

Le tensioni in Medio Oriente tra l’Iran e un gruppo geopolitico antagonista — che fa riferimento ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi, ma anche a Israele e Stati Uniti, polarizzazione che si è anche acuita con gli Accordi di Abramo — avevano raggiunto dei livelli altissimi. Quello che si prospettava era o un conflitto oppure un avvio di contatti. E così è andata: dopo scaramucce militari a plausibilità negabile (piatto della casa dei Pasdaran servito grazie alle milizie sciite), il governo iraniano ha aperto a una serie di incontri diplomatici con sauditi ed emiratini focalizzati sulla necessità di costruire un equilibrio.

Vale la pena sottolineare che queste relazioni in costruzione continuano in mezzo ai nuovi investimenti militari e al procedere del programma atomico — che recentemente il dipartimento di Stato americano ha denunciato  in rapido sviluppo. Nei giorni scorsi, una delegazione iraniana e una saudita si sono incontrate a Baghdad per il quinto round di questi meeting (il primo dopo sette mesi). Fonti informate li definiscono “positivi” e “progressivi”, sottolineando che le rappresentanze hanno dialogato secondo autorizzazioni ricevute dai massimi livelli istituzionali.

Contemporaneamente, un altro dialogo è aperto sull’Iran: quello tra Israele e Stati Uniti — dialogo che si collega ai dati Sipri. Gli israeliani stanno cercando di bloccare gli americani dal ricomporre il Jcpoa, ma soprattutto vogliono assicurarsi che Washington sia pronto a un potenziale scenario in cui l’intesa non si raggiunge e il Jcpoa salta del tutto. In quel caso Israele vorrebbe essere sicuro che esista un’opzione di rappresaglia armata contro Teheran qualora ce ne fosse bisogno. I Pasdaran (e l’Iran) a quel punto avrebbero armi in più, influenza e un programma atomico prossimo alla Bomba.

(Foto: Twitter, @khamenei_ir)

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