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Lo si è detto in più occasioni: con la pandemia abbiamo trasformato una rovinosa caduta in un tuffo e tutti insieme abbiamo realizzato un qualche cosa che abbiamo chiamato smart working anche se smart working non è stato.

Certo non sono mancate le considerazioni e le critiche soprattutto in ambiente pubblico: c’è chi ha affermato che con lo smart working la produttività non è diminuita, chi ha detto che è ora di finirla di far finta di lavorare, chi ha disquisito sul fatto che lo smart working non è il semplice lavoro da casa, chi infine ha ipotizzato l’abolizione dello smart working solo per spingere la gente a vaccinarsi e via così.

È giunto il momento di giocare a carte scoperte. Non c’è dubbio che per effetto della pandemia abbiamo fatto un grande passo in avanti: da un lato prendendo confidenza con un arsenale informatico che era a disposizione e scarsamente  utilizzato e, dall’altro  facendo formazione sul campo che in altre epoche avrebbe richiesto robusti interventi e costi rilevanti.

La pandemia e l’urgenza hanno improvvisamente interrotto il minuetto tra sindacati e datori di lavoro che andava avanti dal 2017 ed abbiamo capito che era possibile una maniera diversa di lavorare, ne abbiamo tutti contabilizzato i vantaggi e gli svantaggi e lo abbiamo chiamato smart working, ma in realtà quello non era smart working.

Lo smart working è prima di tutto un grande progetto organizzativo, che per essere tale deve far registrare alla fine un incremento della produttività aziendale, un miglioramento del benessere organizzativo ed una migliore conciliazione vita lavoro.

Se manca solo uno di questi tre elementi lo smart working è un fallimento e da noi più di un elemento è mancato. Come valutare allora l’esperienza di questi ultimi tempi? Se è letta come un punto di arrivo ha il sapore di un fallimento, ma se si considera come un punto di partenza, può aver il sapore di un investimento che consente di apprendere facendo.

Ora, perchè nel settore privato coloro che hanno assaggiato il sapore dello smart working sotto pandemia, hanno deciso di investire, reingegnerizzando i processi, rivisitando gli indicatori di risultato, ripensando gli spazi ed investendo in sicurezza informatica  e in formazione per una nuova leadership dei propri manager?. Come direbbe Cocciante forse “ci sarà un perché“, come ci sarà un perché se nel settore pubblico sono in tanti che non vedono l’ora di tornare alla “normalità” del passato.

Senza un progetto organizzativo di grande portata, che è di fatto un progetto di change management, il lavoro a distanza, da solo, non si trasforma in smart working: si perdono così per strada tutti i vantaggi che potrebbe offrire e si evidenziano solo i grandi problemi che oggettivamente esistono.

La conclusione è semplice: in realtà è un invito. È da anni che, nel migrare dal controllo dei fondi spesi ai risultati ottenuti con quei fondi, si afferma che nel pubblico è necessario evitare le ricadute sui semplici adempimenti, in questo caso legati alle percentuali di smart working previste per norma.

Il vero problema infatti non è controllare le presenza del personale, ma i risultati che esso realizza e la qualità di quei  risultati: nonostante anni dodici anni di gestione della performance qusto sembra un obiettivo ancora non perfettamente raggiunto.

Sempre da anni si discute sulla necessità di modificare i modelli organizzativi rivisitando i processi per combattere la burocrazia che pesa più del debito pubblico ed allora perché non considerare lo smart working come una leva di cambiamento sfruttando anche l’onda del Pnrr?

Tornare alla normalità di un tempo in un periodo in cui tutto sta cambiando è un esercizio sterile, mentre migliorare il migliorabile è un dovere non solo etico nei confronti di 60 milioni di italiani ma anche nei confronti tre milioni di dipendenti pubblici.

Smart working: giochiamo a carte scoperte

Di Luciano Hinna

Smart working: è ora di schiarirsi le idee. Tornare alla normalità di un tempo in un periodo in cui tutto sta cambiando è un esercizio sterile. Migliorare il migliorabile è un dovere. Il commento di Luciano Hinna, professore ordinario di Economia aziendale all’Università di Tor Vergata

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