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Nella dialettica politica, è pratica ricorrente rinfacciare all’avversario eventuali condotte ipocrite che contraddicano nei fatti i valori cui si richiama.

A chi ne è oggetto, si tratti di aspetti pubblici (vedi i privilegi del fustigatore anti-casta) o privati (il divorzio del politico pro-famiglia) conviene non raccogliere la polemica e lasciarla cadere.  Consapevole, come suggeriscono gli spin doctors, che una smentita altro non fa che rilanciare una seconda volta sui media quella stessa accusa che l’ha generata.

Nel contesto internazionale un tale argomentare è ancora più facile e frequente. Non per la presenza di un tasso di ipocrisia più alto ma perché l’agire in funzione di un interesse nazionale rappresenta da sempre la regola piuttosto che l’eccezione.

Con l’ingresso nel XX secolo delle masse in politica, si è tuttavia posto il non facile problema di come comunicare alle pubbliche opinioni la brutale razionalità della politica estera in modo da creare consenso piuttosto che dissenso, facendo ricorso quando possibile ai propri valori di riferimento.

Va da sé che i cortocircuiti sono frequenti; il che porta ogni soggetto internazionale a cercare di distogliere l’attenzione dalle proprie contraddizioni per concentrarla su quelle dei propri avversari, ricorrendo istituzionalmente ad attività di intelligence e di propaganda.

Lo dimostra al meglio il comportamento di Stati Uniti e Russia nell’affrontare i casi di Alexey Navalny e di Julian Assange, che presentano sorprendenti somiglianze.

In primo luogo, entrambi si sono fatti portatori di quello che potremmo definire un giornalismo investigativo border-line che ha osato spingersi ben oltre i limiti fissati non tanto dalla deontologia professionale (piuttosto ambigua sul punto) quanto dalla mediana di ciò che si trova nell’infotainment.

Così facendo, al netto della veridicità delle notizie diffuse (di cui ci diranno meglio gli storici), hanno svelato aspetti scomodi per l’establishment dei loro stessi contesti di riferimento. Avessero fatto lo stesso trattando di quelli avversari, probabilmente oggi sarebbero in lizza per ottenere premi e riconoscimenti piuttosto che condanne penali.

In secondo luogo, hanno fatto emergere con disarmante chiarezza che dietro all’esplosione globale dell’horror vacui dei notiziari H24 non vi è tanto la volontà di allargare gli orizzonti del diritto all’informazione quanto quella di condizionare il formarsi dell’opinione pubblica.

Grazie ad un processo fatto di tanti piccoli passi (tipo i notiziari ogni 15 minuti) con diluizione progressiva delle opinioni e rilascio a lento assorbimento omeopatico di eventuali verità troppo scomode per essere rivelate subito per intero.

Dall’inesistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, al maccartismo all’origine del Russiagate contro Donald Trump, fino all’origine non del tutto naturale del Covid-19 (bollata come fantasia complottista a marzo 2020 e oggi una delle ipotesi sul tavolo).

Infine, ad accomunare Navalny e Assange sono gli strumenti con cui i rispettivi contesti hanno cercato di contenerne prima e annullarne poi l’azione.

Da un punto di vista giudiziario, sono stati incarcerati e trascinati in un calvario labirintico di procedimenti penali di cui non si intravede l’uscita e che sembra puntare a snervarne la resistenza fisica e psicologica, a mo’ di memento mori per tutta la categoria dei giornalisti investigativi free-lance che ne volesse emulare le gesta.

Da un punto di vista politico, ad entrambi sono state rivolte simili accuse di agire su mandato di forze straniere che puntano a destabilizzare lo Stato con la diffusione di informazioni riservate quando non segrete.  In contemporanea, sono partite campagne di delegittimazione della persona (Navalny accusato di corruzione; Assange di stupro) per gettare discredito sulla loro attività professionale tout court.

La prova più evidente che si tratti di due casi entrati nelle relazioni diplomatiche russo-americane la dà il fatto che, nonostante le loro similitudini, sia a Mosca che a Washington essi non vengono mai accostati e trattati insieme. Proprio in conseguenza di quella gestione binomica “intelligence+propaganda” sopra descritta, le parti coinvolte hanno tenuto ben separate le due vicende, commentandole a ruoli invertiti.

Silente sul prolungarsi della dura carcerazione di Navalny, Mosca ha dato ampio spazio a reazioni e commenti di sdegno per la decisione della giustizia britannica di autorizzare l’estradizione del fondatore di Wikileaks negli Stati Uniti, proprio mentre Joe Biden interveniva al Summit for Democracy ideato dalla Casa Bianca.

Silente sulla ferma pluriennale determinazione di portare Assange nelle patrie galere, Washington non ha mancato di criticare duramente il trattamento riservato a Navalny plaudendo (dopo averlo perorato) al Nobel per la pace 2021 andato a due giornalisti di opposizione, la filippina Maria Ressa e (soprattutto) il russo Dmitrij Muratov .

Rievocando nei toni lo split retorico di qualche anno fa, quando i Panama Papers che trattavano dei capitali di esponenti vicini a Vladimir Putin erano “giornalismo investigativo”; mentre i file che descrivevano i conflitti di interesse di Hillary Clinton erano “attività di hackeraggio”.

È evidente che in questo gioco di narrative contrapposte, hanno più da rimetterci i paesi con maggiori tradizioni democratiche poiché le loro contraddizioni stridono di più a cospetto della loro storia e dei valori universali di cui sono punto di riferimento.

Una cosa è accusare di ipocrisia la Russia, paese ancora in transizione, lungi dall’avere l’ambizione di porsi come modello politico-istituzionale da esportare; ben più pesante è criticare gli Stati Uniti, che, al netto di mille problemi, sono (e soprattutto si sentono) una delle forme più avanzate di liberal-democrazia applicata.

In ogni caso, ciò che le due vicende ci dicono è che – messi da parte multilateralismo, evoluzione dei diritti, indipendenza della giustizia etc. – nei fatti l’interesse nazionale prevale ancora nettamente sul diritto all’informazione. E non si intravvedono grandi cambiamenti all’orizzonte.

Per uno Stato-Nazione il ruolo di una spia resta ancora molto più centrale di quello di un giornalista. A meno che quest’ultimo non sia egli stesso parte della (legittimissima) attività di intelligence.

Da Navalny ad Assange. Giornalismo e interesse nazionale secondo Pellicciari

A entrambi sono state rivolte accuse simili: di agire su mandato di forze straniere che puntano a destabilizzare lo Stato con la diffusione di informazioni riservate o segrete. Eppure in Usa e Russia non vengono mai accostati. Igor Pellicciari, ordinario di Relazioni internazionali all’Università di Urbino, spiega perché

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