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Un’esistenza leggendaria e naif da donna libera ante litteram, Letizia Battaglia ha “scritto con la luce” e “fotografato trattenendo il respiro” secondo le due definizioni della fotografia di MacLuhan e di Cartier Bresson. Ha messo a nudo la ferocia della mafia e combattuto i padrini utilizzando il loro stesso ghigno e la loro cupa ombra di morte. Avrebbe potuto vivere a Londra, Parigi o New York da erede celebrata e acclamata di Doisneau, Robert Capa, Helmut Newton, Richard Avedon e di Andy Warhol, ma ha amato talmente visceralmente la sua città, senza essere riamata, da scegliere di morire in silenzio e senza fasti in una Palermo annichilita e ripiegata su se stessa alla vigilia di una Pasqua senza resurrezione. Ha trasformato la fotografia, alla quale arriva nel ’71 prima a Milano e poi a Parigi, nella sua personale liberazione di giovane donna ribellatasi agli stereotipi di una società palermitana gattopardesca, maschilista ed ipocrita e l’ha fatta diventare volano di denuncia e di redenzione di una città irredimibile, ma che da capitale della mafia ha trovato la forza di trasfigurarsi nella capitale dell’antimafia.

Negli anni ’80 crea il laboratorio d’If, dove si formano fotografi e fotoreporter palermitani. Nel 2017 inaugura a Palermo all’interno dei Cantieri Culturali della Zisa il Centro Internazionale di Fotografia da lei diretto, metà museo, metà scuola di fotografia e galleria. Nel 1979 è cofondatrice del Centro di Documentazione Giuseppe Impastato. Si occupa anche di politica a cavallo tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90. È consigliera comunale con i Verdi, assessore comunale a Palermo con la giunta Orlando. Nel 1991 è eletta deputata all’Assemblea regionale Siciliana con La Rete. Ha esposto in Italia, nei Paesi dell’Est Europa, Francia (Centre Pompidou, Parigi), Gran Bretagna, America, Brasile, Svizzera, Canada.

La definizione che preferiva era quella più autentica: era felice che la si considerasse la più obiettiva e precisa combattente antimafia.

Il clic di Letizia battaglia non era quello del grilletto, ma della macchina fotografica. Eppure ogni suo scatto ha inferto a cosa nostra più colpi letali di cento kalashnikov perché ha storicizzato la ferocia dei boss e reso immortali le vittime e non i carnefici. Con la fotografia ha raccontato la guerra di mafia e le stragi che insanguinarono Palermo. A Cominciare dall’Assassinio del Presidente della regione Piersanti Mattarella agli attentati di 30 anni addietro a Capaci e via d’Amelio contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sono suoi gli scatti all’hotel Zagarella che ritraggono i cugini esattori mafiosi Nino e Ignazio Salvo che furono acquisiti agli atti del processo a Giulio Andreotti. Il 6 gennaio 1980 è la prima fotoreporter a giungere in via Libertà a Palermo su luogo dell’omicidio Mattarella. “Sono arrivata seconda, dopo il killer” dichiarò ammettendo non la paura, ma la rabbia per non aver potuto fotografare il sicari. Nello stesso anno un suo scatto della «bambina con il pallone» nel quartiere palermitano della Cala fa il giro del mondo.

Insignita di numerosi premi come l’Eugene Smith e l’Eric Salomon Award, ha collaborato con le più importanti agenzie giornalistiche mondiali ed amato viaggiare, soprattutto in Africa. Tra i suoi soggetti preferiti in primo piano c’è sempre stata la donna. “La fotografia, come la musica, coglie l’attimo che non riusciamo a cogliere, ciò che siamo stati, ciò che avremmo potuto essere” ha sottolineato lo scrittore Antonio Tabucchi. Letizia Battaglia quell’attimo lo ha sempre centrato e immortalato, rigorosamente in bianco e nero come quasi tutte le sue foto. Bianco e nero. I colori del bene e del male.

Letizia Battaglia, la leggenda di una vita in bianco e nero

Ha trasformato la fotografia nella sua personale liberazione di giovane donna ribellatasi agli stereotipi di una società palermitana gattopardesca, maschilista ed ipocrita e l’ha fatta diventare volano di denuncia e di redenzione di una città irredimibile, ma che da capitale della mafia ha trovato la forza di trasfigurarsi nella capitale dell’antimafia. Il ricordo di Gianfranco D’Anna

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