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Donald Trump ha definito l’India una “economia morta”, sostenendo che gli Stati Uniti facciano “pochissimi affari” con il Paese asiatico, e inasprendo lo scontro con quella che oggi è la quinta economia mondiale. Le dichiarazioni arrivano mentre Washington e New Delhi si trovano in un momento di stallo sui dazi del 25% che l’amministrazione americana intende imporre su diversi prodotti indiani.

Scrivendo sul suo social network, Truth Social, nella notte tra mercoledì e giovedì, il presidente statunitense ha inserito l’India nello stesso registro polemico già riservato alla Russia, storico partner strategico dell’India nella difesa e nell’energia. “Non mi interessa cosa faccia l’India con la Russia”, ha scritto Trump. “Possono affondare insieme le loro economie morte, per quanto mi riguarda. Con l’India facciamo pochissimi affari. I loro dazi sono troppo alti, tra i più alti al mondo”.

Numeri e alleanze in contrasto con la retorica

Nel 2024, gli scambi commerciali tra India e Stati Uniti hanno superato i 129 miliardi di dollari: un valore pari a circa un quinto di quelli registrati con Messico e Canada — mercati fortemente integrati con quello statunitense per ragioni di prossimità — e a un terzo rispetto alla Cina. Nonostante ciò, l’India si colloca stabilmente tra i primi dieci partner commerciali degli Stati Uniti, una posizione di rilievo. Washington è inoltre il primo partner per l’export indiano, con un saldo commerciale favorevole a Nuova Delhi di circa 45 miliardi di dollari — e questo è da sempre nel mirino di Trump, che in questo secondo mandato ha trasformato le critiche in misure concrete.

La cooperazione tra i due Paesi si è ampliata in un processo che negli ultimi decenni ha bypassato la natura politica delle amministrazioni. Barack Obama ha definito il rapporto con l’India come una delle “partnership decisive del XXI secolo”, aprendo per esempio alla designazione di “Major Defense Partner”. Trump nel suo primo mandato ha coltivato un rapporto personale molto visibile con il primo ministro Narendra Modi, suggellato da eventi di grande impatto simbolico come il rally “Howdy Modi” a Houston nel settembre 2019, dove i due salirono insieme sul palco, e il “Namaste Trump” ad Ahmedabad nel febbraio 2020, accolto da una folla da stadio; tuttavia nel 2019 ha anche ritirato l’India dal programma GSP (Generalized System of Preferences), che garantiva accesso agevolato al mercato Usa per miliardi di dollari di merci indiane. Trump ha dato un impulso decisivo al rilancio del Quad nella fase finale del suo mandato, lasciando a Joe Biden il compito di trasformarlo in una piattaforma operativa nell’ottica comune del “Free and Open Indo-Pacific”, e ha evitato sia il tono da relazione personale di Trump sia l’idealismo puro di Obama, adottando uno stile pragmatico e multilaterale (temi chiave: le nuove tecnologie e la competizione con Pechino), con attenzione ai diritti ma senza rompere la linea della convergenza.

Tuttavia, l’India è rimasto il secondo acquirente mondiale di petrolio russo dopo la Cina, nonostante le pressioni seguite all’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia. New Delhi continua a dipendere in gran parte da Mosca per l’approvvigionamento di armamenti, nonostante i tentativi del governo Modi di diversificare, anche grazie ad accordi con Francia, Stati Uniti, Israele — e con una serie di attori che si stanno irrobustendo nel mercato indiano, come l’Italia.

Effetti immediati e ambiguità negoziali

Il nuovo dazio del 25%, di un solo punto inferiore a quello annunciato da Trump lo scorso aprile nel cosiddetto “Giorno della liberazione”, dovrebbe entrare in vigore il 1° agosto. Tuttavia, secondo fonti ufficiali, l’India non ha ancora ricevuto una comunicazione formale da Washington, e lo stesso Trump ha poi lasciato intendere che le trattative restano aperte: “Vedremo come va a finire”, ha detto ai giornalisti.

Intanto, l’indice azionario Nifty 50 ha chiuso in calo dello 0,3% giovedì, mentre la rupia ha inizialmente perso lo 0,3% sul dollaro, scivolando ai minimi da cinque mesi prima di stabilizzarsi. Primo stress test finanziario per New Delhi o leva per Trump?

Il fronte globale e l’autonomia indiana

A differenza di Unione europea, Giappone e Corea del Sud – che hanno già accettato accordi commerciali sotto pressione statunitense – l’India appare determinata a difendere totalmente la propria autonomia. Il governo Modi ha dichiarato che “verranno adottate tutte le misure necessarie a tutela dell’interesse nazionale”. Secondo le stime della banca Axis di Mumbai, i dazi potrebbero causare un impatto aggiuntivo di 10 miliardi di dollari sulle esportazioni indiane, pur considerando che l’economia del Paese resta orientata principalmente al mercato interno.

Kunal Kundu, economista per l’India presso Société Générale, ha sottolineato al Financial Times che però la misura rischia di “danneggiare il morale interno”, indebolendo il vantaggio tariffario che l’India cercava di mantenere nei settori a basso costo del lavoro. Tuttavia, ha aggiunto, “l’impatto non è eccessivamente grave”.

Ad accrescere le tensioni bilaterali, c’è però anche l’annuncio di un nuovo accordo tra gli Stati Uniti e il Pakistan per lo sviluppo delle riserve petrolifere del Paese. “Chissà, magari un giorno venderanno petrolio all’India!” ha detto Trump in tono ironico, dopo le frizioni tra India e Pakistan seguite al breve ma inteso scontro militare dello scorso maggio — considerato da New Delhi come un punto di flessione della propria strategia, da reattiva a proattiva. Le parole del presidente americano sembrano intenzionalmente provocatorie, e hanno suscitato forti reazioni in India.

Cibo, dazi e i limiti dell’apertura

Secondo fonti informate sui negoziati, uno dei principali ostacoli rimane la riluttanza indiana ad aprire il mercato dei cereali e dei prodotti lattiero-caseari alla concorrenza americana. Si tratta di settori che coinvolgono centinaia di milioni di persone e hanno un forte valore politico e sociale.

Intanto, il prodotto principale esportato dall’India verso gli Usa sono gli smartphone, grazie soprattutto alla strategia di Apple di spostare parte della produzione fuori dalla Cina. Per ora, i dispositivi elettronici – inclusi iPhone e prodotti farmaceutici – sono esclusi dal pacchetto tariffario. Ma la situazione potrebbe cambiare. D’altronde, Trump è stato chiaro con Tim Cook di Apple, raccontando di avergli detto chiaramente: “Tim, sei mio amico […] ti ho trattato molto bene […] ma ora sento che stai costruendo ovunque in India. Non voglio che tu costruisca in India”, anticipandogli la possibilità che i dazi vengano estesi anche ai suoi device.

Da notare: a giugno, l’India è diventata il primo paese per produzione di smartphone spediti negli Usa. Per anni, l’India è riuscita a gestire equilibri, ambiguità e autonomia. Ora sembra che Donald Trump chieda di prendere posizione, tra i legami con la Russia, le azioni nei BRICS e la relazione con Washington. Reazione in progress: le principali raffinerie statali indiane, tra cui Indian Oil, hanno sospeso le importazioni di petrolio russo dopo le minacce di Trump di introdurre dazi del 100% per chi coopera con Mosca, spingendo anche i grandi operatori privati come Reliance e Nayara a cercare forniture alternative in Medio Oriente e Africa.

È un’economia morta. Perché Trump alza la tensione con l’India

Le parole di Trump e l’eventuale estensione dei dazi mettono a dura prova l’equilibrio Usa-India che, pur attraversato da divergenze tattiche, si è consolidato attorno a una convergenza strategica di fondo. La sfida, ora, sarà capire se questa convergenza reggerà all’urto di una nuova stagione di unilateralismo americano

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