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Prendere o lasciare. La campagna di pressione dell’amministrazione Biden contro il governo russo entra in una fase due: convincere la Cina a non soccorrere Mosca, isolata e sanzionata da buona parte della comunità internazionale per l’invasione in Ucraina.

È questo il messaggio riferito a Roma lunedì dal consigliere per la Sicurezza nazionale americana Jake Sullivan in un bilaterale con Yang Jiechi, membro del Politburo e più alto diplomatico cinese in carica. Nel bilaterale all’Hotel Rome Cavalieri l’inviato di Biden ha espresso “profonda preoccupazione” per un fiancheggiamento cinese che aiuti Vladimir Putin ad allentare il cappio delle sanzioni. Soprattutto per la fornitura di materiale bellico che, secondo il Wall Street Journal, sarebbe stata richiesta ai cinesi dal governo russo, ipotesi però nettamente smentita da Pechino.

Lo stesso copione ha guidato martedì mattina la conversazione a Palazzo Chigi tra Sullivan, il presidente del Consiglio Mario Draghi e il suo consigliere diplomatico Luigi Mattiolo. Se necessario, questo il cuore del faccia a faccia, anche l’Italia dovrà fare la sua parte per convincere la Cina a non schierarsi con la Russia.

A Washington la nuova linea sta prendendo forma al Congresso. Un fronte trasversale tra repubblicani e democratici promette di votare sanzioni contro la Cina qualora dovesse prendere le difese di Putin. A guidarlo c’è il repubblicano della Florida Marco Rubio, membro della Commissione Esteri del Senato, noto come hardliner nei confronti della Cina. “Sostengono ipocritamente l’invasione criminale russa perché condividono un obiettivo comune con Putin, imporre un nuovo ordine globale con loro alla guida e l’America relegata a una potenza di secondo ordine”, ha detto il senatore in una recente nota.

“Ci dovrebbero essere sanzioni su qualsiasi azienda (cinese) coinvolta”, ha aggiunto. Gli ha fatto eco il leader dei democratici al Senato Dick Durbin: “Allineandosi a Putin e alla sua condotta vergognosa la Cina sta commettendo un grave errore”. La scorsa settimana a Capitol Hill è atterrato un decreto presentato da un gruppo bipartisan della Camera. Si chiama, con un acrobatico acronimo, “Dictator” (Direct Investigations on China, Take Action to Oppose Russia) e “accenderà i riflettori sul tentativo del governo cinese o di entità ad esso associate che aiutino illegalmente la Russia a evadere le sanzioni imposte dagli Stati Uniti”, avvisa una nota dei due firmatari, la democratica Elissa Slotkin e il repubblicano Young Kim.

Finora la Cina ha perseguito una “ambiguità strategica” sull’invasione russa in Ucraina, ribadita a Roma da Yang con un comunicato che auspica “una visione di sicurezza comune, comprensiva, cooperativa e sostenibile” per risolvere la crisi. “Gli Stati Uniti falliscono nel tentativo di intrappolare la Cina sull’Ucraina”, è il titolo di un articolo al vetriolo del battagliero Global Times, megafono internazionale della propaganda di partito, all’indomani del vertice romano.

Ad aprire uno spiraglio in una telefonata con il ministro degli Esteri spagnolo Jose Manuel Albares è stato il capo della diplomazia cinese Wang Yi. La Cina, ha detto, “non è parte di questa crisi né vuole che le sanzioni la colpiscono”, riferendosi all’ipotesi di sanzioni secondarie di Europa e Stati Uniti, definite “infondate alla luce del diritto internazionale”.

Ma la cautela cinese non è solo retorica. Finora, al di là delle dichiarazioni ufficiali del governo e del ministero degli Esteri, che ha definito “solida come una roccia” l’“amicizia” con la Russia, il sostegno cinese alla causa russa è stato molto contenuto. Alcune delle principali banche nazionali, come Bank of China e Icbc, hanno sospeso le linee di credito in dollari ad aziende e istituzioni russe. E la stessa segretaria al Commercio americano Gina Raimondo ha riconosciuto nei giorni scorsi che “non ci sono prove che aziende cinesi in particolare stiano cercando di aggirare le sanzioni”. Aggiungendo però che gli Stati Uniti “sono pronti ad applicarle, anche contro Paesi come la Cina che non vogliano adeguarsi al nostro controllo dell’export”.

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