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Che Matteo Salvini abbia il carisma dei leader, e che per ciò anche sia divisivo, lo ha dimostrato, se ancora ce ne fosse stato bisogno, nelle ultime ore, cioè subito dopo l’uscita delle agenzie con l’anticipazione dell’intervista concessa da Giancarlo Giorgetti a Bruno Vespa per il suo nuovo libro.

La reazione rapida, fulminea, con la convocazione del Consiglio federale, non era una scelta scontata, ma era sicuramente la più indicata: lasciar decantare l’attrito, diciamo così, con il suo vicesegretario, iniziare un lavoro sotterraneo di mediazione, temporeggiare, o addirittura compiere un fallo di reazione, avrebbe finito per essere deleterio per l’uno e per l’altro, e cioè in fondo per la Lega.

Ed è proprio questa capacità di leadership, che si traduce in consenso quando si va a votare, che nessuno oggi nella Lega ha e che, fra l’altro, ha permesso al partito di uscire dalle secche delle percentuali in cui era piombato non molti anni fa. Credo che di questo ne sia convinto lo stesso Giorgetti. Tanto che la sua sortita, un vero e proprio azzardo, si è conclusa non con una tregua nel partito, come dicono molti giornali, se non altro perché la guerra non c’è proprio stata, ma con una sconfitta abbastanza plateale (se poi questa fosse stata deliberatamente presa in considerazione da parte del ministro, e quindi cercata, è un altro conto).

Venendo ai motivi concreti della diversità di visione fra i due, e cioè quella della collocazione europea e quindi dell’identità della Lega, qui il discorso si fa più complesso. È innegabile che anche su questo punto Salvini abbia ragione nell’individuare i due motivi per cui dice di non considerare l’adesione al gruppo popolare: uno, oggi quel gruppo è debole quanto mai lo era stato prima d’ora; due, perché non è alternativo alla sinistra ma nella sostanza, almeno da qualche lustro, ne è succubo.

Il problema sorge quando si tratta di capire cosa fare in questa situazione: allearsi a destra, confluendo in un solo gruppo, che è la soluzione a cui tende l’”ala sovranista” del partito (e che fra l’altro non è nemmeno alla portata di mano nonostante le intenzioni di Orban e Morawieki); oppure provare a posizionarsi anche in quell’area liberale e moderata che è oggi sottorappresentata nella speranza di rafforzarla e di sottrarla all’abbraccio “innaturale” con la sinistra?

Messo in questi termini il problema sembrerebbe solo tattico, o addirittura ideologico, ma in verità  è pure molto sostanziale: i ceti produttivi, industriali, “moderati”, chi li rappresenta, soprattutto in Italia? E aver proposto una federazione con Forza Italia non andava proprio, e anche, in questa direzione? E può un centrodestra che si regge su una sola gamba, o quasi, essere vincente, e cioè governare (indipendentemente dal fatto di essere accettato o meno nei “salotti buoni”)?

La mia impressione è che Salvini sia troppo politicamente avveduto per non rendersi conto di questo punto, anche se in questi giorni ha dovuto battere il martello dall’altra parte dando a sua volta l’impressione del contrario. In effetti, si trattava di mettere in chiaro chi comanda, di chi è la leadership, anche per tenerlo unito (e da questo punto di vista le uscite di Giorgetti, non per i contenuti ma per i modi e i tempi in cui vengono fatte, qualche problema lo creano). La politica segue i suoi ritmi, fra l’altro oggi molto veloci, e non sono preclusi cambi di rotta, anche a breve appunto, ma a deciderlo e a farli accettare deve essere il leader (ovviamente dopo avere ascoltato tutti).

E questo è il punto essenziale che Salvini ha voluto ieri ribadire e il senso che emerge dalla convocazione e dagli esiti del consiglio federale.

Salvini conferma la sua leadership e tiene unito il partito. La bussola di Ocone

La reazione rapida, fulminea, con la convocazione del Consiglio federale, non era una scelta scontata, ma era sicuramente la più indicata: lasciar decantare l’attrito con il suo vicesegretario, iniziare un lavoro sotterraneo di mediazione, temporeggiare, o addirittura compiere un fallo di reazione, avrebbe finito per essere deleterio per l’uno e per l’altro, e cioè in fondo per la Lega. La rubrica di Corrado Ocone

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