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In un momento in cui l’innovazione corre più veloce dei sistemi chiamati a valutarla e renderla disponibile, l’accesso alle terapie resta uno dei nodi più urgenti della sanità italiana. Le tempistiche di approvazione, le differenze regionali, la fragilità degli investimenti in ricerca sono tutti elementi che contribuiscono a creare disuguaglianze nel percorso che separa il farmaco dal paziente. Su questi temi, Healthcare Policy ha parlato per Formiche.net con Anna Maria Mancuso, presidente di Salute Donna, che fa il punto sul valore dell’innovazione, sulle criticità ancora aperte e sulle priorità che dovrebbero guidare l’agenda istituzionale nei prossimi anni. Alla luce di quanto emerso anche nel percorso “Pazienti in Agorà” promosso da Novartis, che ha riunito trenta associazioni per identificare quattro direttrici decisive – riduzione dei tempi di accesso all’innovazione, sostegno strutturale alla ricerca, promozione di una nuova cultura del dato e superamento delle disomogeneità territoriali – Mancuso sottolinea la necessità di una voce comune, capace di orientare la transizione verso nuovi modelli sanitari capaci di valorizzare l’innovazione e più vicini ai reali bisogni dei pazienti.

Quando l’innovazione non raggiunge i pazienti, rischia di perdere il proprio valore. Non si tratta soltanto di una questione teorica: nel concreto, quali sono oggi i principali fattori che continuano a incidere sull’accesso alle cure?

Purtroppo i tempi restano il nodo più critico. L’Ema, a livello europeo, approva un farmaco in circa poco più di un anno. Ma una volta arrivato in Italia inizia un secondo percorso: passa all’Aifa, e solo dopo può essere inserito nei prontuari regionali. Il risultato è che trascorrono anni prima che una terapia innovativa arrivi davvero al letto del paziente. Anni che, per molti pazienti, significano perdita di tempo prezioso. E a volte anche perdita di vita.

Il tema delle terapie innovative porta inevitabilmente anche ad altri nodi. Non si tratta solo di tempi lunghi, immagino…

Esatto. Le differenze territoriali sono l’altro grande elemento di disuguaglianza. Alcune Regioni investono sull’innovazione, altre – spesso perché vincolate da piani di rientro – preferiscono continuare con le terapie tradizionali, che costano meno, ma portano anche meno benefici nel lungo termine. Il risultato è che non solo i tempi si allungano, ma l’accesso diventa profondamente iniquo, creiamo pazienti di serie A, di serie B e, purtroppo, anche qualcuno di serie C.

Se guardiamo ancora più a monte, prima dell’arrivo delle terapie ai pazienti, troviamo la ricerca. Quanto conta il sostegno a quest’ultima?

La ricerca è fondamentale, è il primo punto su cui si dovrebbe investire. Senza ricerca l’innovazione non esisterebbe. In Italia, purtroppo, da anni gli investimenti restano insufficienti. Eppure investire in ricerca significa risparmiare nel lungo periodo: un paziente curato in modo efficace è un cittadino autonomo, che continua a lavorare, contribuire, vivere pienamente. Non diventa un paziente complesso, che richiede cure aggiuntive e genera un ulteriore carico sul sistema sanitario. In un epoca in cui parliamo tanto di sostenibilità del sistema, l’innovazione, quella che arriva veramente ai pazienti, può essere di supporto proprio a garantire la tenuta del Ssn.

Negli ultimi anni il tema dell’accesso è entrato stabilmente nell’agenda istituzionale. Quali progressi ritiene più significativi?

Un passo importante è stato l’introduzione del fondo per i farmaci innovativi. Attraverso il lavoro congiunto dell’intergruppo parlamentare “Insieme per un impegno contro il cancro” e quello delle associazioni, in particolare Salute Donna e al gruppo di associazioni “La salute un bene da difendere”, siamo riusciti a ottenere nuove risorse dedicate all’innovazione, alle quali le regioni possono attingere senza sottrarre fondi ai budget ordinari. È stato un risultato concreto.

E cosa manca, invece?

Serve aumentare questo fondo, perché la ricerca corre e oggi abbiamo terapie personalizzate che offrono opportunità straordinarie. Ma servono investimenti adeguati per farle arrivare ai pazienti. Devo dire, con assoluta sincerità, che il ministro Orazio Schillaci sta lavorando molto bene: affronta i problemi uno per uno, ascolta tutti, e per noi rappresenta un cambio di passo. L’intergruppo – guidato da Vanessa Cattoi – ha fatto un lavoro enorme nel riunire tutte le forze politiche. Quando la politica lavora così, unita, i risultati arrivano davvero.

Veniamo alle associazioni dei pazienti. Che contributo portano oggi al dibattito sull’accesso?

Il primo atto formale per mettere le associazioni ai tavoli è stato introdotto proprio grazie al nostro intergruppo, con un emendamento alla legge di bilancio dello scorso anno. Ora la messa a terra è passata nelle mani del ministro della Salute che sta definendo criteri di partecipazione oggettivi. Questo garantisce che le associazioni vengano ascoltate non perché rappresentative. È un passo storico. Solo attraverso l’ascolto dei diretti interessati il sistema può guardare al futuro.

Di recente il progetto “Pazienti in Agorà” ha riunito 30 associazioni proprio con l’obiettivo di accelerare l’accesso alle cure. In che modo iniziative come questa possono rafforzare la collaborazione tra associazioni, istituzioni e industria?

Questa iniziativa è preziosa perché non è tematica. Non parla solo di oncologia, ma mette insieme realtà che si occupano di patologie diverse. Così si impara a conoscere i bisogni degli altri, si evita di lavorare per silos e si cresce come comunità. La collaborazione tra stakeholder – associazioni, clinici, istituzioni, industria, società scientifiche – è l’unica via possibile. Lavorare insieme è un metodo vincente, e lo abbiamo già dimostrato con il progetto “La salute un bene da difendere”. Oggi, le associazioni sono più coordinate, sì, ma devono imparare a lavorare ancora di più insieme. Quando si riesce a costruire un fronte comune non ci si perde in protagonismi e il valore aggiunto è enorme.

Se dovesse indicare una priorità assoluta per ridurre le criticità sull’accesso, quale sarebbe?

Sburocratizzare, senza dubbio. Eliminare almeno uno dei livelli che rallentano l’innovazione: i prontuari regionali. L’Aifa approva un farmaco? Bene, deve diventare automaticamente accessibile ai pazienti di tutte le regioni. È giusto che l’Aifa faccia le verifiche necessarie per tutelare la sicurezza, ci mancherebbe, ma i prontuari regionali rappresentano un livello che oggi andrebbe superato. Troppi passaggi generano disuguaglianze e ritardi che non possiamo più permetterci. Bisogna ricordarsi che quando parliamo di innovazione, parliamo di un tema che ci riguarda tutti.

Accesso, ricerca e visione comune. Come valorizzare l'innovazione secondo Mancuso (Salute Donna)

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