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Che il Mediterraneo rappresenti una sorta di punto di passaggio, geografico e temporale, nella storia del mondo, che prosegue da Oriente a Occidente, come voleva Hegel, è da considerarsi un destino ineluttabile? Sì, ma solo se si assume un’idea appunto progressiva, provvidenzialistica, teleologica, necessitata della storia. Una concezione “spiritualistica” a cui si oppone Albert Camus, che legge il Mediterraneo non solo come il sempre possibile “altro” ma anche come il luogo in cui la “natura” (che in una prospettiva idealistica come quella hegeliana semplicemente non esiste o viene annullata dal progressivo procedere autocoscienziale dello Spirito) accampa i suoi diritti seppure in modo non esclusivo. Il Mediterraneo favorisce questa integrazione perché in questo luogo geografico e ideale la natura non è ostile, come possono esserlo il deserto a sud e ad est o le fredde brume tedesche a nord.

Così come, passando dallo spazio al tempo, il presente non è duro e triste e non predispone all’attesa della fine dei tempi ma si fa vivere in tutta la sua pienezza. La tradizione delle grandi religioni monoteistiche affonda nel deserto, anche se poi il cristianesimo ha dovuto rispetto all’originario ebraismo mitigarsi e addolcirsi, farsi (anche) greco o ellenizzarsi,  per penetrare e diffondersi nel Mediterraneo. Il Mediterraneo greco, e greco-latino, diventa perciò l’Altro, ma tutto interno, all’Occidente, quello che si sviluppa lungo l’asse che va dalla tradizione giudaico-cristiana a quella “tedesca” (e anche ovviamente anglosassone) ove l’ostilità alla natura si manifesta nella hybris che intende annullarla o modificarla, plasmarla ad libitum, e che si esprime infine nel dispiegamento della tecnica (la più “spirituale” a ben vedere delle attività umane e  che altro fine non ha che questo suo sempre più completo dispiegamento).

Il Mediterraneo diventa quindi, lungo un percorso di lettura che sarà fatto proprio da Franco Cassano, teorico del “pensiero meridiano”, il luogo della misura, della mediazione, del limite, della lentezza non apatica ma produttiva di senso, di un dir di sì alla vita non banale ma tragico. Ed è appunto la tragedia greca, non la filosofia (che in qualche modo la tradisce) il luogo della piena coscienza e accettazione del mondo seppur nella consapevolezza della non risolvibilità delle sue contraddizioni (secondo l’etimo di “tragedia”, appunto). Di cui è metafora l’alternarsi di terra e mare, di un mare che non è sconfinato come l’oceano e di una terra che non più rinchiudersi in sé  stessa perché è affacciata sul mare e protende verso l’oltre dell’altra terra. Oppure, ne è metafora l’alternarsi di notte e giorno ma di un giorno che è battuto dal sole, attraversato da una luce che è quasi accecante (come ricorda Camus parlando della sua Algeri giovanile).

Il Mezzogiorno di Camus, pieno di sole e luce, oltre che di un mare a portata d’uomo,  non va però concepito, come una secca alternativa all’Occidente, nemmeno nella prospettiva storicistico-temporale cara ad Hegel. A quell’Occidente che  non è la terra del giorno ma del tramonto (dell’occàso, di ove cioè declina il sole che sorge a Oriente); quella sera-tramonto  (Abend-land in tedesco), che è il nostro spazio  epocale. Non nel senso spengleriano o di declino  che va oggi di moda come reazione di certa destra nostalgica e re-azionaria oppure, dall’altra parte,  in certo naturalismo o ambientalismo  palingenetico di sinistra, ma proprio come intrinseca sua costituzione: l’Occidente non può che vivere tramontando..

Il Mediterraneo è piuttosto, nell’ottica di Camus, un contrappeso che oggi è diventato una risorsa in un Occidente che si è sempre articolato come tensione fra misura e dismisura. E che oggi, nel punto culminante della storia del Muovo Mondo sembra virare decisamente verso la dismisura.

(Photo credits DietrichLiao)

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