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La ricca stagione 2021 di (insperati) successi italiani dalla nazionale di calcio ai Maneskin passando per volley, ciclismo e Olimpiadi ha riportato nel paese il senso di orgoglio ed unità nazionale a livelli non registrati da tempo.

La categoria dei catastrofisti, sempre in agguato nel mainstream nostrano, è rimasta nell’occasione silente.

In genere stimolata strumentalmente dalle forze politiche di opposizione del momento senza distinzione, non ha ovviamente trovato sponde nell’amplissima maggioranza che sostiene Mario Draghi. Mentre la principale formazione partitica fuori dal Governo (Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni) ha nella difesa dell’identità nazionale un tradizionale tratto caratterizzante che le ha impedito di gettare ombre su una qualunque affermazione italiana, ancor più se ottenuta in Europa.

Evitato il rischio dello scivolamento nello spirito dissacratorio, si è caduti nell’estremo opposto di fiumi celebrativi di una retorica ripetitiva, prevedibile e ridondante.

Al netto del rischio di crisi di rigetto nell’opinione pubblica di questa banale melassa apologetica, va detto che il recente ravvivarsi dell’orgoglio nazionale è stato un fenomeno sincero, nato dal basso. Ma tutt’altro che nuovo.

Vi è una credenza piuttosto diffusa che l’Italia non abbia un proprio forte spirito popolare unitario e che questo sia costantemente sovrastato da localismi, la cui forza identitaria si impone su quella nazionale. Ci si sente prima membri della comunità locale cui si appartiene e poi – eventualmente, a corrente alternata – anche di quella statuale.

Se questa chiave di lettura ha parte di fondamento storico, la sua estremizzazione è uno stereotipo che porta fuori strada e impedisce di comprendere come lo spirito di identità nazionale in Italia esista da tempo, più forte di quanto si creda.

Rispetto ad altri paesi, tuttavia, esso si sviluppa lungo direttrici non sempre politico-istituzionali ma anche e piuttosto sociali e culturali. Non ci si identifica tanto nel proprio leader o nelle istituzioni, quanto nello stile di vita e nelle proprie tradizioni, tra cui spiccano quelle alimentari.

Si è propensi ad accettare l’ennesimo cambio di Governo ma non del rituale domestico dell’espresso con la Moka, della pasta cotta al dente o del cappuccino bevuto solo per colazione.

Sono espressioni tipiche di una Società più forte dello Stato.

Aiutano a comprendere perché il Bel Paese, debole sul piano politico internazionale, sia diventato potenza culturale e commerciale a livello mondiale, grazie al muoversi autonomo ed in ordine sparso di operatori ed imprenditori spesso slegati dai rispettivi livelli istituzionali di riferimento.

Con il cibo tra i primi fattori di identità nazionale italiana, è normale la difesa a spada tratta dei nostri tradizionali prodotti alimentari. Soprattutto di quelli diventati di uso mondiale grazie alla crescente popolarità internazionale della cucina italiana, rispetto ad altre storicamente diffuse come quella francese.

Si moltiplicano a riguardo iniziative contro il fenomeno della contraffazione di eccellenze alimentari italiane copiate all’estero; il più delle volte di bassissima qualità e rivolte ad un consumatore straniero low cost poco informato, tratto in inganno con banali giochi di parole sui nomi originali dei prodotti.

Vi sono però situazioni nelle quali questa giusta difesa della qualità scivola da sacrosanta questione di orgoglio e di identità nazionale a indicatore di un atteggiamento provinciale che si presta a strumentalizzazioni politiche.

In primo luogo, quando si pretende di esercitare un’esclusiva italiana su particolari pietanze (come la pizza o il ragù di carne) nate sì nel nostro paese ma poi globalizzatesi.

Se è giusto descrivere la (spesso palese) pessima qualità di quelle estere rispetto alle nostrane, tuttavia non ha senso alcuno pretenderne il ritiro dai mercati europei come se si trattasse di un capo di abbigliamento contraffatto di Gucci.

Equivarrebbe a riconoscere agli americani il diritto di impedirci di cucinare a modo nostro gli hamburger; ai giapponesi di vietarci il sushi “fusion” con il formaggio spalmabile e agli spagnoli di intimarci di ritirare dal commercio i surgelati che promettono una paella in 4 minuti di cottura.

Varietà di Prosek, vino dolce passito

Altra situazione dove si pecca di un provincialismo dai risvolti più insidiosi è quella delle accuse di contraffazione mosse a prodotti tradizionali di altri paesi, di cui in realtà ignoriamo caratteristiche e origini storiche.

Il caso emblematico è quello del Prošek croato, trattato dai nostri media come un fake al pari di quel formaggio Parmesello, pacchiana storpiatura del nome Parmigiano.

Le accuse al vino croato di volere “emulare” il Prosecco non convincono per il fatto che il Prošek, come vino e come nome, esiste dal’800 ed è tutt’altro che una recente invenzione commerciale di comodo.

L’evidente somiglianza nei due nomi non è frutto di un maldestro tentativo di clonazione del prodotto ma semmai la risultante etimologica delle numerosissime antiche parole veneziane di uso comune nella lingua croata parlata nelle provincie dalmate, dove si produce il Prošek.

A togliere ogni dubbio che si tratti di due vini (da sempre) totalmente diversi, c’è che quello croato è un rosso dolce tipo passito, al primo sguardo distinguibile dal Prosecco, vino bianco frizzante.

Si tratta dunque di due prodotti inconfondibili, che in comune hanno solo due antichi nomi simili, peraltro diversi a sufficienza da non creare confusione.

Se in Croazia si ordina al cameriere un calice di Prosecco, arriva normalmente il vino italiano e non certo il Prošek (pure molto meno diffuso e non facile da trovare).

Nonostante queste considerazioni di buon senso, si è scelto di alzare i toni e politicizzare la questione a tal punto da farla diventare niente meno che questione diplomatica italo-croata da dirimere a Bruxelles.

L’eccessiva reazione italiana punta ad una facile vittoria contro un paese piccolo appena entrato in UE.

Di sicuro, sancisce il passaggio da una legittima difesa del cibo come identità nazionale ad un nazionalismo alimentare dal sapore amaro.

Utile più ad una politica in affannosa ricerca di legittimità che ad una tavolata tra amici con del (buon) vino.

Eat in Italy. Dove finisce l’identità culturale e inizia il nazionalismo alimentare

La giusta difesa dei prodotti tipici può scivolare da sacrosanta questione di orgoglio e di identità nazionale ad atteggiamento provinciale che si presta a strumentalizzazioni politiche. Come tra il Prošek croato e il Prosecco italiano. Il professor Igor Pellicciari dell’Università di Urbino spiega perché questa battaglia è un errore

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