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Come è noto, Gentile trovò nel fascismo la sintesi pratica e morale dell’alta esigenza di vita che scaturiva dalla sua filosofia. E non fu un caso che lo interpretò come un momento e una continuazione del Risorgimento nazionale, filosofia che si fa vita e vita che si crea facendosi. Ogni presupposto “naturalistico” mostrava la sua inconsistenza davanti a questa attività pensante o pensiero vivente, compreso quello di tipo razziale che inficiava molte declinazioni coeve dell’idea di nazione, ma non certo quella del filosofo di Castelvetrano.

Salvatore Natoli ha dimostrato in maniera molto convincente come alcune idee costitutive del fascismo (il movimento, la nazione, il socialismo) siano perfettamente conciliabili con la filosofia dell’Atto; il che serve a delineare, all’un tempo, quale fu il fascismo di Gentile e in che senso Gentile fu o può essere detto fascista.

Il fascismo andò delineandosi in Gentile come quel movimento storico e la dottrina filosofico-politica che si sarebbe fatta carico di quell’immane compito che il Risorgimento lasciava aperto: l’educazione civile e morale degli italiani. Un’educazione che doveva essere totale, e cioè impegnare il sentimento e la volontà non meno che il pensiero. Proprio per il suo carattere totale o “totalitario”, essa avrebbe mirato dritto all’ “uomo intero”.

Mi sembra perciò fin troppo evidente da quanto detto che Gentile non può essere attaccato (e ovviamente difeso), per il suo fascismo e per la sua opera, se non si prende prima seriamente in conto la sua filosofia. Che è quanto cercò di fare Benedetto Croce, che pure da tentazioni “attualistiche” non era esente.

Il filosofo napoletano resisteva comunque alla reciproca implicazione di teoria e prassi che il rigore e la coerenza logica dell’idealismo esigeva, e che nell’attualismo aveva trovato espressione. I distinti, lungi dall’essere dei presupposti categoriali alla concreta vita dello spirito, furono da lui giustificati, proprio in un dialogo serrato con Gentile, con un sofisticatissimo dispositivo teorico che è possibile vedere all’opera, ad esempio, in una serie di articoli usciti su “La Voce” di Prezzolini negli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale. Mentre la distinzione di teoria e prassi, su cui avrebbe insistito nella piena età del totalitarismo in La storia come pensiero e come azione, gli sarebbe servita per battere in breccia ogni teologia politica, fosse pura quella di matrice liberale.

C’è sacrificium intellectus in questa resistenza di Croce al logicissimo e serrato teorizzare gentiliano? Ed è possibile concepire un sistema di libertà senza questo “sacrificio”? Oppure, più semplicemente, c’è forse bisogno di una più compiuta “teoria speculativa della libertà”? Sono domande, politiche e filosofiche insieme, che non possono più essere eluse. Così come non può essere più rimosso il contributo dato da Gentile a un radicale ripensamento della filosofia e a un auspicabile definizione su basi solide della nostra identità di italiani.

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