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Nel cammino verso zero emissioni nette talvolta occorre fermarsi e fare il punto e confrontare la sacrosanta spinta verso la decarbonizzazione con la dura realtà. Che nel caso del petrolio è questa: ci servirà ancora per anni, piaccia o meno, dato che non esiste un’alternativa altrettanto economica, efficiente, facilmente distribuibile e sfruttabile.

L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha calcolato che la produzione di petrolio è salita del 4,6% tra settembre 2020 e 2021. Nello stesso periodo i prodotti raffinati sono cresciuti del 6,6% e le consegne totali sono aumentate dell’8,4%. Intanto le riserve strategiche sono più vuote, dopo che alcuni Stati (come gli Usa) vi hanno attinto per ammortizzare il caro-energia.

“Ci aspettiamo che la domanda di petrolio cresca a 100,23 milioni di barili al giorno nel 2022, con un aumento di 3,5 dal 2021 e ampiamente al di sopra dei livelli del 2019 di 98,27”, ha scritto Schroders, una multinazionale che si occupa di asset management, basandosi sulle previsioni di crescita del Pil globale.

Gli analisti prevedono anche un passaggio dal gas al petrolio in Europa e Asia, dove il prezzo del gas – che per via del minore potere inquinante è il combustibile d’elezione per la transizione – è talmente alto da fornire un incentivo per il ritorno al petrolio. In altre parole, scapicollarsi verso la soluzione più verde ha favorito le sorti di quelle più “sporche”.

Dissonanza cognitiva? Eppure questa palese, vorace domanda di petrolio non traspare dal comportamento dei grandi enti dei Paesi Ocse, come multinazionali petrolifere e banche d’investimento. Le pressioni di investitori e ambientalisti uniti alle ragioni d’immagine li hanno resi sempre più restii a investire in nuovi progetti di esplorazione e sfruttamento.

Ma persino applaudire una scelta così responsabile potrebbe essere fuorviante, come dimostra il Wall Street Journal. Le più importanti compagnie petrolifere stanno fuggendo dalle sabbie bituminose del Canada, ossia la quarta riserva più grande al mondo di petrolio nonché una delle più inquinanti, visto che l’estrazione richiede solventi chimici e l’uso massiccio di acqua, che nel processo viene contaminata. Gli investimenti sono in stallo e le banche si rifiutano di finanziarne di nuovi, racconta il WSJ, ma “ci si aspetta che la produzione di petrolio continui per almeno altri due decenni”.

E allora invece di abbandonare per sempre i tar pits, incubo di chi ha a cuore le sorti dell’ambiente, ecco che società minori, di scala locale, hanno preso il posto di quelle più blasonate (e vincolate dalla loro immagine pubblica) e per sfruttare miniere e pozzi esistenti. Secondo i primi calcoli, l’anno scorso le sabbie bituminose avrebbero fornito più petrolio che mai.

“Non c’è nessuna tecnologia di scala che possa sostituire quello che può fare il petrolio, questa è la semplice realtà”, ha detto un produttore alla testata newyorkese.

Finché i giacimenti di petrolio esistenti rimangono redditizi, indipendentemente dai danni che causano all’ambiente e alla loro impronta di carbonio, rimarranno in attività per molto tempo. A dispetto delle tasse aggiuntive sui combustibili fossili e sulle emissioni di CO2, specie se la spinta verde continua a causare un aumento dei prezzi delle alternative più pulite, come il gas naturale.

Sia il Canada con la sua immagine di “potenza buona”, che ovviamente gli Stati Uniti, hanno politiche energetiche impregnate del realismo da cui non si può prescindere per guidare una transizione che rischia di essere dolorosa, dunque rigettata dalle fasce che più ne verranno impattate.

Se ne è accorto il presidente americano Joe Biden, impegnato nel tentativo di far passare il suo piano di transizione, che nel 2021 ha chiesto all’Opec di aumentare la produzione e ha sostenuto il rinnovamento della Line 3, un oleodotto che trasporta greggio dalle sabbie bituminose del Canada negli Usa.

Intanto il collega canadese Justin Trudeau prova a metterci una pezza, dichiarando che sarà il petrolio a finanziare la transizione energetica, un modo carino per spiegare come mai il suo governo sta spendendo oltre 12 miliardi di dollari per espandere un altro oleodotto, il Trans Mountain, che trasporta il greggio dalle sabbie bituminose alla costa occidentale del Paese; da lì il prodotto è ancora più vicino a mercati in crescita come quelli asiatici.

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