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Gli ultimi mesi del 2021 sono stati caratterizzati dalle notizie su un prossimo intervento russo in Ucraina, con toni particolarmente allarmati da parte della stampa americana ed europea. La videoconferenza tra Joe Biden e Vladimir Putin del 7 dicembre scorso, al momento in cui si scrive, ha rappresentato un passo in avanti nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia, ma non sembrerebbe aver diminuito la tensione in Europa orientale.

Tensione, artificiale o meno, da non sottovalutare né da sopravvalutare: le minacce di interventi e di dispiegamenti di eserciti e armamenti fanno parte del gioco della diplomazia, il problema è quanto si riesca a mantenere i nervi saldi e a non cedere alla pressione e alla retorica dello scontro. Le bozze di accordo inviate dal ministero degli Esteri russo a Washington e alla Nato in questo contesto rappresentano dei documenti importanti per provare a capire cosa Mosca vorrebbe dagli Stati Uniti e dall’Alleanza Atlantica e quali ambizioni nutre Vladimir Putin per l’immediato futuro.

Le condizioni e i punti proposti dal Cremlino possono essere definiti il programma massimo della politica estera russa, e implicherebbero il riconoscimento dell’esistenza di una serie di buffer zone nelle regioni considerate strategiche da Mosca. Il timore di vedere schierati missili in grado di raggiungere la capitale in pochi minuti e di avere una pressione ai confini del Paese è reale tra i vertici russi e il punto avanzato nero su bianco sull’impegno a non includere l’Ucraina nella Nato è la dimostrazione di questa paura.

Inoltre, per Putin la risoluzione della questione ucraina è considerata parte della sua missione storica di restauratore della grandeur russa a livello globale, ed è cruciale anche per gli equilibri interni perché il raggiungimento di un accordo sul Donbass è per il presidente russo condizione fondamentale nella partita per la transizione al potere.

Europa orientale, Caucaso e Asia centrale sono le regioni considerate dal Cremlino fondamentali per la sicurezza russa. Non una novità, se si esamina dal punto di vista storico la strategia, prima imperiale e poi sovietica, dal XVIII secolo in poi. La differenza che emerge però dalle bozze inviate nel dicembre scorso è nello status dei Paesi confinanti con la Russia: non vi è la richiesta di annessioni o il riconoscimento di una propria sfera d’influenza, come accaduto, in modi diversi, nel 1815, nel 1877- 78 e nel 1945, ma il ricorso alla “finlandizzazione” come soluzione alle tensioni.

Un’ammissione nemmeno troppo implicita della fatica, per la Russia putiniana, nel costruire una rete di relazioni, alleanze e convergenze amichevoli con i propri vicini, segno della perdita di posizioni rispetto al passato zarista e poi sovietico. I tentativi di rilancio del ruolo di Mosca come grande potenza globale, con interventi in Siria e in Africa centrale, con i tentativi di esser presente anche su scacchieri lontani come in America Latina, si scontrano con le fragilità economiche e strutturali del Paese, che, a differenza dell’epoca sovietica, non possono nemmeno essere sopperite con un richiamo ideologico.

Persino in Bielorussia il Cremlino fa fatica a imporre una propria linea, ostaggio com’è della scaltrezza del presidente Lukashenko e dei timori suscitati dalla possibile perdita di controllo di cosa avviene ai propri confini, e anche laddove riesce a trovare soluzioni quantomeno temporanee ai conflitti, come nel caso del Nagorno-Karabakh, Mosca si trova a dover fronteggiare nuovi competitor, cioè la Turchia, in una regione considerata di pertinenza russa.

In Asia centrale non vi sono vassalli per la Russia, dove Stati di diverso peso specifico provano a bilanciarsi tra Mosca, Pechino e Washington, e con il Kazakistan in un ruolo di perno della regione ma alle prese con una transizione graduale al vertice, gestita per ora con grande abilità da Nursultan Nazarbayev.

Le tensioni di oggi testimonierebbero quindi non un’assertività russa dovuta a un rilancio in grande stile di una politica espansionista a livello globale, ma la necessità per Putin di giungere a un accordo con gli Stati Uniti e la Nato, in una nuova fase delle relazioni internazionali, dove uno dei principali interlocutori di Mosca, Angela Merkel, esce di scena.

L’intenzione di un confronto diretto con Washington dovrebbe portare a ulteriori riflessioni sul ruolo dell’Unione europea e su come la presenza di una polifonia di interessi, rappresentata dalle diverse relazioni esistenti da parte degli Stati membri con la Russia, spesso si tramuti in una cacofonia in grado di danneggiare il prestigio e le posizioni europee a livello globale.

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