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Arriva dalle colonne dell’edizione in lingua inglese del Global Times, megafono della propaganda del Partito comunista cinese, la notizia che il colosso cinese Huawei ha rivelato i suoi piani per il lancio dei prodotti 6G (tecnologia che potrebbe essere anche volte più veloce del 5G) nel 2030. I dettagli sono contenuti nella prefazione di un libro firmata da Eric Xu Zhiju, presidente di turno del colosso delle telecomunicazioni.

Già nel secondo paragrafo dell’articolo del Global Times, spunta un pizzico di propaganda: “Gli analisti dicono che anche se il ban degli Stati Uniti imposto un anno fa mercoledì ha causato qualche ‘ferita nella carne’, l’azienda è ben posizionata per continuare a guidare nella prossima era 6G”.

Il sito specializzato Telecoms sottolinea che non si tratta di “una previsione particolarmente rischiosa, dato che le nuove generazioni wireless tendono a emergere all’inizio di ogni decennio”. E infatti sono diversi anni che gli esperti americani, europei e asiatici indicano nel 2030 il momento del 6G. L’ultima conferma in questa direzione è arrivata il mese scorso da SoftBank, che ha indicato proprio nel 2030 la svolta “oltre il 5G” con Internet che “sarà utilizzato per costruire uno spazio digitale virtuale, con reti mobili che collegano stazioni base e dispositivi”, come descritto dal vicepresidente dal colosso giapponese Ryuji Wakikawa.

Allora perché questo annuncio rilanciato anche dalla propaganda del governo? “Sembra come se Huawei (e per estensione la Cina) abbia voluto dare un segnale al resto del mondo sul 6G. Sta effettivamente dicendo “andremo avanti come previsto con il 6G, che il resto del mondo collabori o meno”. Un messaggio all’Occidente ma anche a Paesi più vicini come la Corea del Sud, dove LG ha recentemente realizzato la prima comunicazione su rete 6G a lunga distanza e dove Samsung un anno fa il suo libro bianco sul 6G (indicando come orizzonte per la commercializzazione di massa il 2030).

In questo senso, sul Global Times si trovano alcuni commenti dell’esperto di telecomunicazioni Fu Liang: “Se le tensioni politiche aumentassero, è anche possibile che il 6G abbia due set di standard invece di uno come in passato”. Il tutto si tradurrebbe in crescita dei costi di connettività e perdite per le aziende.

Su questo nelle settimane scorse si è espresso anche l’amministratore delegato di Ericsson, Börje Ekholm. “Se il mondo tecnologico si spaccherà tra Est e a Ovest, allora ci sarà competizione tra due ecosistemi”, ha detto in un’intervista a Light Reading. “Un ecosistema cinese rappresenterà una concorrenza  per l’Occidente. Temo che gli utenti finali – clienti e imprese – la subiranno nella loro esperienza mobile”.

Non sarebbe la prima volta in cui il mondo si divide sugli standard di comunicazione. Era successo con il 3G: l’inizio l’Europa e le Americhe avevano sistemi incompatibili mentre la Cina di fatto fallì nello sviluppo della tecnologia TD-SCDMA adottata da China Mobile, nonostante questo sia il primo operatore al mondo per numeri di clienti. Sulle basi di quel flop però è nato lo sviluppo delle tecnologie 4G in cui Huawei è stata ed è ancora prima al mondo.

“Nonostante i massimi investimenti sul 5G negli Stati Uniti, è poco chiaro se un ecosistema occidentale terrà il passo con la vasta spesa in ricerca e sviluppo in Asia, in particolare in Cina”, ha aggiunto Ekholm.

Ormai due anni fa Martijn Rasser, direttore del programma Tecnologia e sicurezza nazionale del think tank statunitense Center for a New American Security, indicava a politica e industria quattro elementi ancora attuali nella corsa statunitense al 6G. Primo: servono investimenti pubblici per la ricerca e lo sviluppo di tecnologie emergenti (per esempio creando una 6G Public Private Partnership e lavorando con Paesi like-minded e industrie leader come la Finlandia, la Svezia, la Corea del Sud e il Giappone). Secondo: promuovere tecnologie aperte e interoperabili diversificando i fornitori (come O-RAN Alliance). Terzo: gli Stati Uniti devono essere leader nello sviluppo di hardware e software sicuri per fornire al mercato globale un’alternativa affidabile ai produttori meno affidabili come la cinese Huawei. Quarto: assicurare uno sviluppo infrastrutturale in grado di garantire una transizione efficace dal 5G al 6G.

Il 24 settembre prossimo si terrà alla Casa Bianca il primo Quad Leaders Summit di sempre: parteciperanno il primo ministro australiano Scott Morrison, quello giapponese (uscente) Yoshihide Suga e quello indiano Narendra Modi, oltre al padrone di casa, il presidente statunitense Joe Biden. “Tecnologie emergenti e ciber-spazio” sono in agenda, ha spiegato la Casa Bianca. Il comunicato finale dell’incontro offrirà qualche indizio sulle intenzioni sul 6G ma appare evidente che il discorso non può fermarsi a quei quattro interlocutori.

Obiettivo 2030. Huawei (e Pechino) fissano la data per il 6G e sfidano gli Usa

Il colosso cinese, rilanciato dalla propaganda del partito-Stato, annuncia il lancio dei primi prodotti di sesta generazione entro il 2030. Non è un azzardo (gli analisti avevano già indicato quell’orizzonte). Ma si tratta di un modo per dare un segnale al resto del mondo (soprattutto a Washington)

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