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Due le questioni che vanno affrontate in modo distinto, anche se tra loro strettamente connesse.

Da un lato emerge con sempre più evidenza l’inadeguatezza dell’amministrazione, ovvero della competenza ed efficienza della “burocrazia ambientale” sia a livello centrale che in molte sedi regionali e locali.

Questo è l’effetto di regole nazionali e interpretazioni spesso stravaganti di direttive europee che hanno consolidato negli anni il potere di interdizione delle autorità ambientali italiane, associato in molti casi alla supplenza e “invasione di campo” della magistratura: la vicenda dell’Ilva, la Tav Torino-Lione, i tempi biblici della direttissima Firenze-Bologna, la cronica emergenza rifiuti di Roma e delle città del Centro-Sud, i dieci anni per fermare il traffico delle navi da crociera nel bacino di San Marco, la storia infinita dei dragaggi portuali. Sono solo i casi più evidenti di cui sono stato testimone diretto e “vittima”.

Ma non solo le regole. Il potere di interdizione è anche il risultato del “peccato originale” dell’assegnazione al ministero dell’Ambiente di personale con scarsa competenza ed esperienza.

Come direttore generale, per rappresentare l’Italia nei tavoli internazionali di negoziazione su regole decisive per l’economia italiana (per intenderci clima ed energia, certificazione dei prodotti chimici, standard per automobili e mezzi di trasporto, prevenzione e controllo dei rischi industriali, eccetera) e per promuovere oltre 2.000 progetti nazionali e internazionali, ho sottoscritto accordi con università e centri di ricerca per avere il supporto di esperti “esterni” che sono stati reclutati con contratti brevi e precari. Ma senza di loro non avrei potuto assicurare all’Italia una rappresentanza adeguata agli interessi nazionali. Eppure mi hanno accusato di clientelismo.

Durante i miei 500 giorni da ministro avevo proposto l’unificazione delle competenze ambientali di Ispra, Cnr, Enea e Ingv in un unico Istituto nazionale di ricerca per l’ambiente e il contestuale reclutamento nel ministero di 350 esperti di alto livello tecnico con referenze in ambito nazionale e internazionale.

La proposta fu bloccata da un’opposizione trasversale, che con motivazioni diverse ha raggiunto l’obiettivo di cristallizzare e se possibile aggravare l’inadeguatezza del ministero rispetto all’esercizio di competenze sempre più strategiche per il futuro dell’Italia.

Dopo 10 anni, il ministro Roberto Cingolani ha individuato con chiarezza la necessità e l’urgenza di cambiare e costruire un’amministrazione all’altezza delle sfide nazionali e globali della transizione ecologica. Spero davvero che riesca a superare le resistenze clientelari dentro e fuori il ministero, coperte dalla foglia di fico di motivazioni “cultural-ideologiche”. E mi auguro che attorno al suo progetto converga il supporto di una “coalizione del fare” .

L’altra faccia della medaglia sono le politiche e le scelte della transizione ecologica.

Cingolani si è assunto la responsabilità di mettere sul tavolo senza pregiudizi l’intreccio tra le molte opzioni. Questa è l’occasione di fare chiarezza e mettere ordine: le rinnovabili, il gas, l’idrogeno, il nucleare, sono le componenti necessarie di un puzzle per la decarbonizzazione dell’economia italiana che va gestito almeno in una dimensione europea e mediterranea. Avendo soprattutto chiaro che la sicurezza energetica dell’Italia dipende per il 75% dalle importazioni di gas, petrolio e nucleare, mentre la capacità nazionale di produzione di energia dipende in larga parte dalle fonti rinnovabili.

Abbiamo bisogno di uscire dal tifo ideologico e non disinteressato di chi vuole impedire un confronto finalmente a tutto campo sulle scelte possibili.

A questo proposito ricordo che dieci anni fa sono stato denunciato per avere autorizzato i progetti preliminari di esplorazione per l’estrazione di gas nell’Adriatico. In dieci anni abbiamo quasi compromesso la grande capacità e competenza italiana nell’off-shore. Siamo ancora in tempo per valorizzare il gas ”nazionale” come backup delle fonti rinnovabili, con effetti positivi prevedibili sui costi energetici nazionali.

E nello stesso tempo dobbiamo tenere conto che la crescita delle fonti energetiche a zero emissioni richiederà necessariamente la crescita contestuale delle produzioni nazionali con la progressiva riduzione delle importazioni di gas e la contestuale progressiva importazione dai paesi del Nord Africa, dei Balcani, dell’Europa di elettricità da fonti rinnovabili, idrogeno verde, nucleare.

Altro che dimissioni di Cingolani.

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Due i problemi: l’inadeguatezza della “burocrazia ambientale” e il tifo ideologico e non disinteressato di chi vuole impedire un confronto sulle scelte possibili. La versione di Corrado Clini, già ministro dell’Ambiente

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