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Mario Draghi e Janet Yellen hanno diversi tratti in comune. Alcuni di questi hanno implicazioni non solo per loro due, ma anche per i rispettivi Paesi. Entrambi hanno studiato a metà degli anni settanta, fanno parte della stessa generazione. E questo potrebbe sembrare banale.

Non è così banale invece che tutti e due abbiano alle spalle un dottorato in università economiche di élite degli Stati Uniti, nonché una rodata e stimata carriera accademica in diversi atenei. Draghi ha insegnato teoria economica a Trento, Venezia, Padova e Firenze. Yellen, dopo un dottorato a Yale, ad Harvard, Berkeley e alla London School of Economics. Sono due economisti di esperienza, capaci di coniugare teoria e pratica.

Sono stati lodati da premi Nobel: Draghi da Franco Modigliani e Robert Solow, Yellen da James Tobin e molti altri. Uno di loro, Paul Krugman, ha definito Draghi uno degli economisti più rilevanti al mondo. Non è poco.

Uno sguardo alla carriera accademica di queste due figure renderà chiaro perché, da una prospettiva economica, oggi i mercati siano in buone mani. Sia Yellen che Draghi sanno fare i conti. Prima di guidare la Federal Reserve, Yellen ha avuto esperienze in diverse banche federali, come quella di San Francisco, responsabile della gestione delle economie regionali. Draghi ha passato del tempo a Goldman Sachs in posizioni apicali: ancora oggi lo ricordano come uno dei migliori.

Quest’anno è stato chiamato al compito di porre su basi più solide l’economia italiana, ferita come altre dalla pandemia di Covid. Con la Brexit ormai alle spalle l’Italia ha acquistato peso in Ue. A differenza delle disavventure economiche greche, l’Unione e l’Eurozona difficilmente sopravvivrebbero a una grande crisi italiana. È una verità che tutti gli Stati membri conoscono bene, e che è alla base dell’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi.

Yellen è stata scelta dal presidente Joe Biden per guidare l’importante Dipartimento del Tesoro. Una missione che arriva dopo aver dimostrato a diversi altri presidenti e al mondo intero le sue capacità. E non a caso il programma economico di Biden riflette il suo pensiero.

Di qui torniamo al punto di inizio. Non è un dettaglio che entrambi questi economisti siano keynesiani, e non siano piuttosto iscritti alla cosiddetta Scuola di Chicago. Sono a favore di sistemi di mercato. Ma si rifiutano di credere che i mercati debbano essere lasciati a se stessi, liberi di operare come vogliono. Una forma di intervento dello Stato, ne sono convinti, è generalmente necessaria. E questa convinzione si applica anche alla politica internazionale.

Draghi è universalmente ammirato per la sua forte dichiarazione a difesa dell’euro dalla Bce, in un momento in cui la Fed stava autorizzando un massiccio intervento dello Stato. Il suo whatever it takes è presto diventato un cliché richiamato in tutto il mondo. Sotto la sua guida a Francoforte le economie nazionali hanno avuto modo di riprendere la crescita. Tanto gli Stati Uniti quanto l’Ue si sono stabilizzati in una stagione in cui queste politiche keynesiane erano da quasi tutti ritenute necessarie.

Se il mondo supererà l’impatto economico del Covid e ora di Omicron, molto si dovrà alle politiche economiche messe in campo dai singoli Paesi. Per questo è cruciale che sia Draghi che Yellen, nonostante la loro solida fede nel mercato, rimangano a favore di un intervento pubblico nell’economia.

Chiariamoci, Draghi non piace a tutti a Washington DC. I guerrafondai, quelli responsabili di tante sconfitte militari, si sono forse risentiti della politica estera del premier italiano nel Mediterraneo o in Medio Oriente. Alcuni di questi probabilmente preferiranno rimanere in silenzio dopo la rivelazione, pubblicata dalla stampa americana, che il Pentagono ha mentito sistematicamente sul numero di persone innocenti uccise dai droni americani.

Come in passato Giulio Andreotti, Draghi vuole capitalizzare la sua conoscenza del Medio Oriente e la sua amicizia con alcuni leader arabi. Washington da parte sua saprà apprezzare il fatto che il premier abbia allentato i rapporti con una Turchia sempre più aggressiva. Definendo “dittatore” Erdogan ha dimostrato agli americani che l’Italia è disposta a giocare un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale.

Oltre al suo dichiarato atlanticismo, l’Italia sarà ora considerata un importante alleato internazionale. Una leadership, quella italiana, che da Roma emana in tutto il bacino Mediterraneo. Ed è sempre più orientata alla promozione della democrazia all’estero.

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