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Al presidente statunitense Donald Trump non ha mai fatto difetto lo spirito da giocatore d’azzardo. In tempi non sospetti aveva cercato di trasformare Atlantic City in una Las Vegas sulla East Coast. E una scommessa è stata anche l’azione militare contro l’Iran di sabato notte, prendendo in contropiede un po’ tutti, a partire dal suo stesso vice, JD Vance, che solo poche ore prima aveva criticato Israele per il tentativo di trascinare gli Stati Uniti nel conflitto. Ma Trump è fatto così e spesso agisce d’impulso, convinto del suo intuito e della sua personale lettura delle situazioni.

La scommessa del presidente è rivolta innanzitutto all’interno del Paese, contro l’ala repubblicana più isolazionista e i democratici, che lo accusano di aver usato strumenti di guerra in tempi di pace bypassando il Congresso. Trump ha anche creato aspettative nella numerosa diaspora iraniana presente negli Stati Uniti, coniando addirittura un nuovo slogan (Make Iran Great Again) da affiancare al Maga e rispolverando l’idea dell’Iran come Stato “vassallo” degli Stati Uniti ai tempi dello Scià: una specie di 51esimo Stato, molto più vicino a Washington rispetto al Canada o alla Groenlandia di cui si fantastica oggi e dotato ai tempi del quinto esercito più potente del mondo e con un programma nucleare avviato già negli anni Cinquanta (anche se con scopi esclusivamente civili).

Ma il gamble della Casa Bianca è stato lanciato anche sulla scena internazionale, provocando la reazione iraniana e aprendo a un possibile scenario di caos che non sembra tenere presenti i precedenti di Vietnam, Afghanistan e Iraq dove la exit strategy è stata catastrofica a dispetto dei successi ottenuti nelle fasi iniziali di questi conflitti. A complicare ulteriormente le cose si aggiunge anche un quadro internazionale già molto teso a causa dei vari conflitti in corso, dall’Ucraina a Gaza, senza parlare di Myanmar e Sud Sudan.

Quale il risultato di questo azzardo? Per ora Trump sembra essere stato premiato, perché all’interno sembra che la fronda repubblicana si sia ricompattata mentre i democratici restano troppo divisi nelle reazioni, con un Congresso che è impotente rendendo dunque del tutto irrealistica al momento la procedura di impeachment. Sul piano esterno, invece, ha confermato l’appoggio a Israele riuscendo a intestarsi i meriti dell’operazione, al netto però di eventuali reazioni da parte di Teheran (che potrebbero anche riguardare azioni di guerra asimmetrica, come attentati di cellule dormienti o attacchi cyber) e in attesa di capire se e fino a che punto il programma nucleare iraniano sia stato davvero smantellato. Sembra improbabile invece che gli ayatollah blocchino lo stretto di Hormuz, dal momento che tale decisione infliggerebbe prima di tutto un danno alla già fragile economia iraniana e indisporrebbe anche Paesi “amici” come la Cina, che come noto acquista il petrolio a prezzo di sconto ed è interessata a mantenere i traffici commerciali liberi e aperti. Per non parlare delle monarchie del Golfo, a cominciare dal Qatar per cui la navigazione attraverso Hormuz è fondamentale per portare il proprio gas naturale liquefatto verso Ovest. L’unico Paese a essere avvantaggiato sarebbe la Russia, che otterrebbe una rendita supplementare dall’export di idrocarburi grazie all’aumento dei prezzi internazionali.

Per Teheran, comunque, il rapporto con Mosca in questo momento è essenziale. In questo senso, è molto importante la visita del ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi per incontrare il presidente russo Vladimir Putin. L’Iran non ha bisogno del sostegno militare russo in termini di uomini, ma solo per quanto riguarda equipaggiamento e infrastrutture informatiche, e potrebbe chiedere anche la possibilità di “parcheggiare” il proprio uranio arricchito e alcuni mezzi militari in territorio russo beneficiando di rifugi davvero inattaccabili.

Nei prossimi giorni probabilmente si riuscirà a capire quale sarà il battle damage assessment, anche se sembra che le capacità di arricchimento siano state seriamente danneggiate ma non del tutto dato che non si sa dove siano finiti i circa 400 chilogrammi di uranio arricchito. Al momento, comunque, la priorità principale del regime iraniano è quella di mantenere il controllo del Paese e dunque di non aggravare ulteriormente la situazione di difficoltà della popolazione, alle prese con aumento del costo della vita e difficoltà materiali per le sanzioni, al fine di evitare che si verifichi una sollevazione popolare. Se davvero potesse avvenire un regime change, l’impressione è che si potrebbe verificare solo partendo dall’interno, magari attraverso una condivisione del potere da parte della stessa élite teocratica ai civili e a una parte dei militari.

Che dire, infine, della posizione molto cauta mantenuta dall’Italia (e più in generale dall’Europa? Bene ha fatto il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a offrire Roma come luogo di mediazione, contando anche sulla tradizionale amicizia con il popolo iraniano e predisponendo le basi per un rientro dell’Italia nel gruppo dei 5+1 che, con molta probabilità, tornerà a essere un formato ideale per riaprire il negoziato (che alla fine comunque ci sarà) sul controllo dell’arricchimento dell’uranio a soli fini civili. L’Italia fa bene a restare fuori dalle ostilità in questo momento: non ha nulla da offrire in termini militari e, anzi, avrebbe tutto da perdere. Occorre invece lavorare per una de-escalation condivisa a livello europeo, a maggior ragione per un Paese come il nostro che è largamente dipendente dagli scambi commerciali e dall’import di energia dalla regione del Golfo.

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