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Caparbietà nel perseguire il risultato anche nei momenti in cui lo stesso sembrava sfuggire di mano, associata a un atteggiamento di basso profilo, privo di inutili ostentazioni, nella ininterrotta tessitura dei contatti internazionali indispensabili per la convocazione dell’autorevole foro da lui presieduto. Sono alcuni degli “ingredienti” alla base del successo diplomatico riportato dal presidente del Consiglio Mario Draghi attraverso la conferma ( seppure per ora solo “ufficiosa”) dello svolgimento, nel mese di ottobre, del vertice straordinario G20 sull’Afghanistan.

Un’affermazione di prestigio, è bene ribadirlo da subito, non solo per l’ attuale inquilino di Palazzo Chigi in una materia, per di più, del tutto estranea a quel contesto finanziario in cui è da anni riconosciuto protagonista, ma anche per il governo italiano e, a ben vedere, per l’intero Paese, dimostratosi nella circostanza molto abile (Wembley avrà insegnato qualcosa?) sia nel gioco di squadra sia, quando necessario, nell’imporre la propria volontà all’avversario.

Sotto questo profilo, di grande rilevanza si è rivelata, per superare le ultime resistenze, la riunione dei ministri degli Esteri convocata a New York nel quadro dell’annuale Unga dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e caratterizzata dalla partecipazione, tutt’altro che scontata, dell’omologo cinese Wang Yi, il rappresentante cioè di uno dei due paesi (accanto alla Russia) correttamente identificati dal nostro Premier sin dall’indomani della presa talebana di Kabul come “Indispensabili” per ogni serio tentativo di composizione della crisi afghana.

All’interno del “team work” sopra ricordato, è stato invece lo stesso Draghi ad assumersi il non facile compito di convincere ad analogo passo il presidente Putin, da ultimo attraverso una prolungata conversazione telefonica. Aldilà di altre considerazioni, la leva in grado di convincere Mosca circa l’opportunità di lasciare da parte gli attendismi per passare all’azione è rappresentata dal “dossier terrorismo” e dalla collegata consapevolezza che un Afghanistan divenuto incontrollabile sul piano della sicurezza comporterebbe una gravissima minaccia per l’area centro-asiatica, densa di ripercussioni sul piano delle infiltrazioni di matrice islamico-fondamentalista all’ interno della stessa Federazione.

La convinzione circa la tenuta del Vertice, espressa dal presidente del Consiglio intervenendo in teleconferenza all’Assemblea Generale, sembra indicare, in una declinazione operativa, una data situata attorno al 10 ottobre ed una composizione “da remoto”, la più indicata, perduranti restrizioni sanitarie a parte, ad assicurare la più ampia partecipazione dei Leaders.

Sulla scelta della data influisce altresì l’esigenza della presidenza italiana, non apertamente dichiarata ma comprensibilissima, di assicurare un margine temporale sufficientemente ampio fra detto primo appuntamento e il Vertice “istituzionale” G20 di fine ottobre. Quanto precede sia per consentire ad entrambi un tempo adeguato di preparazione sia, soprattutto, per impedire che eventuali aspetti irrisolti o “strascichi” nelle problematiche afghane vadano a incidere sulle decisioni dei Capi di Stato e di Governo nei dossier a loro volta a marcata complessità (si pensi a cambiamento climatico, misure contro la pandemia, lotta alla povertà, ecc.) di prevista discussione in sede di G20 “tradizionale”.

Ottenuto in via di massima l’assenso al suo svolgimento, non si possono infatti sottacere le difficoltà che, sul piano della sostanza, la prossima riunione sull’Afghanistan a guida italiana si troverà ad affrontare, considerate anche le profonde divergenze nelle posizioni dei futuri partecipanti.

Per limitarmi in questa sede ad una di esse, ho avuto modo di ricordare come in ambito Ue siano state definite qualche settimana fa le 5 pre-condizioni ritenute necessarie per l’ apertura di un dialogo con i Talebani (mio articolo in data 8 settembre). Occorre, gioco forza, riconoscere che da allora su nessuna di esse sono stati compiuti, da parte dei Mullah, passi nella giusta direzione, mentre, semmai, sono da deplorare le ulteriori involuzioni intervenute sul piano interno. Pensiamo, al riguardo, alla composizione del nuovo esecutivo, dove figurano ricercati per terrorismo, alle sempre più rigide e umilianti forme di sottomissione dell’elemento femminile, alla annunciata introduzione, in funzione punitiva, delle mutilazioni corporali.

Quanto precede si scontra con la pretesa dei nuovi signori di Kabul di ottenere il riconoscimento internazionale per il neo-costituito “Emirato islamico”, il che comporterebbe – fra altre misure – la sostituzione dei rappresentanti diplomatici a suo tempo nominati dall’ex presidente Ghani (che si mantengono per ora in servizio) con esponenti di loro totale fiducia.

In relazione alla prestigiosa platea di New York, il nuovo ministro degli Esteri Muttaqi si è già fatto interprete di tale specifica richiesta presso il segretario Generale dell’Onu, Guterres.

Assoluto “non starter” per le capitali europee, per le ragioni sopra ricordate bene evidenziate dal nostro premier (“stiamo assistendo allo smantellamento dei progressi degli ultimi 20 anni”), tale eventuale sviluppo non è viceversa considerato irrealizzabile da parte di Pechino e nemmeno da Mosca (per non parlare di Islamabad), che non a caso hanno avviato a margine dell’Unga contatti con i rappresentanti dei Talebani.

Su questo sfondo, non è difficile pronosticare come a “elevata intensità” il comunque non lungo periodo che precederà il Vertice “afghano” del G20.

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Ottenuto in via di massima l’assenso al suo svolgimento, non si possono sottacere le difficoltà che, sul piano della sostanza, la prossima riunione sull’Afghanistan a guida italiana si troverà ad affrontare. L’analisi dell’ambasciatore Marco Marsilli, già rappresentante permanente presso il Consiglio d’Europa e direttore centrale alla Farnesina per le questioni globali e i processi G8/G20

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