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Quando si studia la storia dell’integrazione europea, presto o tardi ci si imbatte in un’espressione sovente usata per descrivere l’alleanza costruita al termine della Seconda guerra mondiale tra Parigi e Berlino, ossia quella del “motore franco-tedesco”. L’ immagine è suggestiva perché indica una spinta propulsiva per uno scopo comune, una direzione che i due Stati consapevolmente hanno preso viaggiando verso una meta unica. Questa meta unica è, sempre secondo la letteratura, la costruzione di un’unione sovranazionale europea.

Ovviamente i fatti sono sempre più complessi di come vengono narrati e questo motore, che tanto bene ha funzionato nell’assicurare una pace quasi secolare al continente, spesso ha minacciato di fermarsi e non ripartire più. Per riavviarlo sono stati necessari diversi interventi di rinnovo e manutenzione: quello del Trattato dell’Eliseo tra il generale Charles De Gaulle e il cancelliere Konrad Adenauer nel 1963, il suo rinnovo nel 2003 tra Jacques Chirac e il cancelliere Gerhard Schroder, e da ultimo il revival del 2019 ad Aquisgrana tra Emmanuel Macron ed Angela Merkel. Attraverso questi passaggi diplomatici le due nazioni hanno scelto di collaborare congiuntamente non solo per edulcorare gli storici (e inevitabili) motivi di attrito, ma anche per allargare questa loro intesa agli altri Stati europei.

Tuttavia, fin dall’inizio di questa operazione, la sfida è stata quella di costruire un rapporto paritetico tra questo “motore” (o asse se si preferisce) e gli altri membri del blocco. Il rapporto franco-tedesco in Europa è stato sempre considerato unico e speciale, centro nevralgico degli avanzamenti istituzionali dell’Unione fin da quando questa era semplice Comunità Economica.

In questo contesto, la firma di un Trattato italo-francese la scorsa settimana può lasciare aperti molti quesiti. Il primo è se il processo di integrazione europea sia all’inizio di un nuovo corso che porterà ad una maggiore inclusione degli Stati membri al di fuori dell’ “asse carolingio”. Il secondo, più alternativo che complementare, è se l’Italia potrà essere un giorno un interlocutore politico per la Francia al pari della Germania, ovvero se quello che era un duo potrà un giorno diventare un trio.

La prima strada porta a considerare il Trattato del Quirinale solo il primo passo di un’integrazione differenziata a guida francese, con un gruppo di testa di Stati membri dell’Ue che scelgono di approfondire la cooperazione tra loro. La seconda strada, invece, può far nascere speranze (puntualmente già nate leggendo i commenti degli ultimi giorni) di una nuova cooperazione bilaterale italo-tedesca, o anche di un vertice a tre dove l’Italia finalmente riesca a sedere ai tavoli che contano.

Entrambe le interpretazioni hanno il difetto di essere molto ambiziose e forse di sopravvalutare un poco quanto è avvenuto da una prospettiva europea. Nel primo caso, l’attivismo francese per la costruzione di una rete europea di Stati allineati con Parigi può essere positivo per una maggiore integrazione europea solo se coinvolgerà più da vicino la Germania. Il governo di Berlino, infatti, difficilmente accetterà che l’Eliseo diventi l’unica mente pensante di una possibile riforma dei Trattati o anche il mediatore con altri Stati membri.

Nel secondo caso, ossia quello dell’affiancamento italiano al duo franco-tedesco, i metodi di inclusione sembrano sbagliati, giacché qualsiasi triangolazione diplomatica, soprattutto se di portata potenzialmente storica, non può avvenire in assenza di uno dei due partner. L’entusiasmo di molti politici e giornalisti italiani in questo senso è comprensibile, e riflette una mai sopita ambizione di migliorare la reputazione internazionale dell’Italia e il peso specifico del suo governo nel contesto europeo.

Ciò nonostante, si dovrebbe ricordare che questo filo rosso nella storia italiana è stato anche motivo di grandi illusioni ed errori di valutazione. Abbracciando un punto di vista più distaccato quindi si possono notare alcune peculiarità del recente accordo franco-italiano. Il primo elemento che salta all’attenzione è la scarsissima risonanza che il Trattato ha avuto nel resto d’ Europa e, ça va sans dire, nel mondo.

La foto ormai iconica della firma tra Draghi e Macron alla presenza del Presidente Sergio Mattarella si è vista raramente sui giornali internazionali, e ancora di meno sui telegiornali. La bolla comunicativa in Italia è stata in questo senso assoluta, come purtroppo spesso accade. Il fatto che l’evento sia stato trattato dalla stampa internazionale come notizia diplomatica e non di attualità politica stride con le interpretazioni di quanti hanno considerato il Quirinale il punto di partenza di una “rifondazione” europea.

Il secondo elemento che desta attenzione è il carattere fortemente bilaterale dell’accordo stesso, dove i continui riferimenti ad una maggiore integrazione europea calano poi nel concreto quando si trattano alcuni temi salienti e importanti per l’interesse nazionale: politica estera, industria, spazio ed economia.

Su questi temi l’intesa tra Parigi e Roma c’è ed è palpabile, mentre invece sarebbe potuta mancare con un attore come la Germania al tavolo. Ma ad indicare che l’intesa tra i due Paesi non sarà l’inizio di un nuovo motore di integrazione c’è anche la ricostruzione offerta da Macron nel suo discorso in conferenza stampa, dove il Presidente francese ha attribuito l’idea del Trattato ad un evento fortuito, quale la domanda di un giornalista qualche anno prima. Evidentemente non una presentazione solenne per un’iniziativa che si crede di portata storica. Lo stesso presidente del Consiglio italiano, nel corso della stessa conferenza, si è guardato bene dall’usare toni enfatici, limitandosi a parlare di una “cooperazione rafforzata tra i due Paesi”. Tutti questi indizi portano a ridimensionare la portata di quanto avvenuto, soprattutto da un punto di vista europeo, pur senza sminuirne i reali successi.

Il primo risultato del Trattato è, per quanto paradossale a dirsi, il Trattato stesso. L’esistenza di una sintonia italo-francese in questo momento storico non è affatto scontata, soprattutto dopo che Roma e Parigi hanno vissuto momenti di tensione in occasione del respingimento dei migranti a Ventimiglia, durante la crisi libica, nel corso della scalata Vivendi e con il protrarsi dell’incertezza sulla questione Fincantieri-Saint Nazaire (e molto altro in realtà). I risultati della cooperazione bilaterale, se ben bilanciati, saranno i primi ad essere evidenti sul breve periodo.

Il secondo risultato dell’accordo è la dichiarazione di sintonia, tutt’altro che scontata, sul futuro dell’integrazione europea. Questa sintonia storicamente è spesso mancata, dato che l’Italia ha sempre o quasi propugnato un modello di integrazione sovranazionale poco nelle corde francesi, nonché l’importanza della Nato in qualsiasi futuro di integrazione sulla Difesa. Per questo motivo i richiami continui alla Nato in riferimento ad uno sforzo comune per una Difesa europea e anche in vista di una maggiore autonomia strategica dell’Ue è certamente un’ottima cosa.

L’ultimo punto saliente che emerge dal Quirinale è certamente una ritrovata credibilità internazionale dell’Italia e l’inizio di una stagione dove essa certamente potrà arrivare ad altri accordi bilaterali o multilaterali in Europa. Il massimo dell’ambizione di Roma in tal senso può essere quella di ricreare il tavolo a quattro di Villa Madama, usato nel lontano 2012 da Mario Monti come camera di compensazione prima dei Consigli Europei.

L’Italia è certamente la terza economia dell’Ue, nonché uno degli Stati più popolosi e può ambire, quando forte e credibile, a superare le sue debolezze strutturali fungendo da ago della bilancia tra Parigi e Berlino (magari con il sostegno spagnolo, come fatto allora) o di essere una delle menti creatrici dell’Unione. Ma questa è una partita sempre aperta, influenzata molto dalle condizioni interne del Paese e che non può essere assicurata da nessun Trattato internazionale.

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