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Il rituale incontro nell’ambito delle Nazioni Unite sulle misure di contenimento al cambiamento climatico, giunto alla 26esima edizione e tenutosi lungo l’arco di tredici, intensi giorni a Glasgow, ha opposto, come da tradizione, le formazioni degli “inviati governativi” (li rappresentiamo, pur con varie tonalità, nella classica uniforme grigio-fumo) e degli “ambientalisti” (schierati in una più informale casacca verde-natura).

Giunto a conclusione dopo defatiganti tempi supplementari, grazie anche alla direzione di gara, risultata impeccabile sino a pochi minuti dalla fine, del britannico Alok Sharma, presidente in esercizio della Cop26 , l’evento è risultato, prevedibilmente, ricco di colpi di scena. Non sono infatti mancate un’abbondanza di reti (tra concesse ed annullate), calci di rigore (trasformati o falliti alla Jorginho), cartellini rossi e gialli e rovesciamenti di scena in piena “zona Cesarini”. Se l’ analisi approfondita di tutti i dati richiederà tempi di decantazione più lunghi di quelli qui disponibili, dall’evento in terra di Scozia si possono ricavare comunque sin d’ora alcune considerazioni.

L’ obiettivo chiave dell’esercizio, il non superamento cioè di 1,5 gradi di riscaldamento globale a fine secolo (misura ritenuta indispensabile per consentire la consegna alle future generazioni di un pianeta-terra ancora abitabile) è stato raggiunto, nel senso che nessuno dei 197 Paesi partecipanti ne ha messo in discussione il principio di fondo. Accompagnandosi ad esso l’ impegno del complesso della comunità internazionale a presentare già nel 2022 piani nazionali più ambiziosi degli attuali in materia di tagli alle rispettive emissioni inquinanti (obiettivo da raggiungere: -45% entro il 2030), si ha la sensazione di come gli “ambientalisti’ non abbiano rinunciato a Glasgow ad imporre il loro gioco, che privilegia, come noto, la fase offensiva.

Rientra fra i parziali successi di questi ultimi anche l’assicurazione di un più consistente passaggio di fondi e di know-how specializzato dalle Nazioni più tecnologicamente avanzate a quelle in via di sviluppo, molto più vulnerabili ed esposte alle drammatiche conseguenze dei cambiamenti climatici (basti pensare a quelle , situate al livello del mare, a rischio di scomparsa in caso di innalzamento anche modesto della superficie delle acque).

Sul fronte opposto, gli “inviati governativi”, bene assestati in difesa grazie a un muro indo-cinese difficilmente valicabile, sono stati in grado con un colpo di mano a tempo pressoché scaduto di annacquare considerevolmente il paragrafo, assolutamente centrale, della Dichiarazione finale (il così denominato “Patto di Glasgow per il clima”), relativo al futuro impiego del carbone, il principale responsabile dell’emissione di gas serra. Su irresistibile offensiva dei delegati di New Delhi, in quella sede non si parla infatti più, come previsto nella bozza originale, di “graduale eliminazione/ phasing out” di tale fonte, e bensì di sua “graduale riduzione / phasing down”, accompagnata dalla soppressione degli aiuti pubblici ai combustibili fossili “inefficienti”. Una modifica non di poco conto, considerato che l’ India, in attuazione di una policy nazionale di cui detto linguaggio incrementerà ulteriormente l’assertività, ha in cantiere l’ apertura di una sessantina di nuove miniere carbonifere e l’ampliamento di buona parte di quelle già esistenti.

Al netto delle scontate, trionfalistiche dichiarazioni pubbliche del premier Boris Johnson e della oggettiva soddisfazione per il raggiungimento di non secondarie intese settoriali (ad esempio in materia di cosiddetto “mercato del carbonio” e di restrizioni alle pratiche di deforestazione), come diffusamente riportato dalla stampa internazionale l’etichetta applicata dagli “ambientalisti” alla Cop26 è quella di essersi risolta in una operazione di “green washing”. Tradotto in pratica, nella mera applicazione di una superficialissima “mano di colore“ alla struttura produttiva esistente nel campo dell’ energia, in quanto tale priva di un vero, concreto impatto in materia di lotta al cambiamento climatico.

A tale versione si oppongono, dallo schieramento opposto, le voci dei sostenitori di un “inevitabile compromesso”, tanto più apprezzato in quanto considerato non scontato in partenza, anche alla luce della siderale distanza esistente fra le rispettive posizioni iniziali. In altri termini, un passo in avanti, certo meno ambizioso di quanto non avrebbero auspicato i numerosi e vocali manifestanti della “Fridays for Future” convenuti in Scozia e collegati da remoto, in numero esponenzialmente maggiore, dalle piazze delle città di tutti i cinque continenti. Esso dovrebbe comunque permettere di riprendere il discorso sulle tematiche del clima, con prospettive leggermente più incoraggianti, tra dodici mesi in Egitto, designato ad ospitare la Cop27. A tale auspicio si è unito a conclusione dei lavori anche l’inviato statunitense John Kerry (“Non siamo mai stati così vicini a evitare il caos climatico”) al quale va riconosciuto il merito di avere gettato nella mischia, al fine di rendere possibile un’intesa finale, pure al ribasso, sia il ragguardevole peso politico del suo Paese (nella specifica materia acuito, è bene sottolinearlo, dalla scomoda posizione di primo Paese inquinatore mondiale), che il suo riconosciuto prestigio personale, questo sì assolutamente incontaminato.

Cop26, chi ha vinto tra governi e ambientalisti. Il commento dell'amb. Marsilli

Di Marco Marsilli

Concluso dopo defatiganti tempi supplementari, grazie anche alla direzione di gara britannica, impeccabile sino a pochi minuti dalla fine, la Cop26 è stata ricca di colpi di scena. Non sono mancati un’abbondanza di reti (tra concesse ed annullate), calci di rigore (trasformati o falliti), cartellini e rovesciamenti in piena “zona Cesarini”. Ma chi ha vinto? Risponde l’ambasciatore Marco Marsilli, consigliere scientifico della Fondazione Icsa, già rappresentante permanente presso il Consiglio d’Europa e direttore centrale alla Farnesina per le questioni globali e i processi G8/G20

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