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Il Supremo consiglio nazionale di Teheran ha rifiutato una bozza di intesa per ricomporre l’accordo sul nucleare Jcpoa. La notizia arriva a pochi giorni dalla diffusione di un report in cui il ministro degli Esteri iraniano, l’uscente Javad Zarif, descriveva i dettagli su un punto di contatto raggiunto dopo mesi di negoziati indiretti con gli Stati Uniti, ora annullato dal Supremo consiglio. Colpo diretto a Zarif, grande costruttore del Jcpoa e sostenitore della necessità di ricomporre l’accordo pesantemente colpito dall’uscita unilaterale dell’amministrazione Trump. Il ministro, portabandiera della linea politica dei pragmatico-riformisti, ha lavorato fino all’ultimo per ricucire, sfruttando le parziali aperture della presidenza Biden, anche nel tentativo di lasciare agli iraniani la nuova intesa come eredità degli otto anni di amministrazione Rouhani.

Quello che emerge con la bocciatura interna è la volontà dell’attuale leadership, guidata dal neopresidente Ebrahim Raisi, di mettere la firma su un nuovo accordo. Un tentativo di evitare che un accordo sul Jcpoa potesse arrivare prima che Raisi entrasse ufficialmente in carica. Anche perché dal raggiungimento di un nuovo accordo l’Iran può solo beneficiare, visto che si porterebbe dietro l’eliminazione di molte delle sanzioni che bloccano l’economia del Paese (messo particolarmente in crisi anche dalla pandemia). Ossia, la presidenza Raisi non si sta muovendo per pura questione ideologica, anzi sta piuttosto seguendo una volontà pragmatica: non vuole che una potenziale vittoria, un successo da rivendere alla popolazione, finisca sotto la firma di Zarif/Rouhani.

La dichiarazione del consiglio è in parte pretestuosa. L’organo, che a tutti gli effetti copre tutte le più delicate decisioni di politica estera dell’Iran, ha all’interno una commissione speciale per il controllo sul lavoro dei negoziatori a Vienna, che dopo aver approvato finora le iniziative diplomatiche (che sono state tutte avallate dalla Guida Suprema, per altro) ora pone un veto. Nella commissione, l’opposizione è stata guidata da un uomo di Raisi, Ali Bagheri-Kani (di cui si parla per il ruolo da futuro ministro degli Esteri): è il nipote del defunto Ayatollah Mahdavi-Kani, il cui fratello è il genero della Guida Suprema Ali Khamenei. La ragione ufficiale su cui è basata la decisione riguarda l’incompatibilità tra la bozza e la risoluzione parlamentare (Majles) sulla necessità di rivitalizzare il programma nucleare.

Ma è lo stesso portavoce del Supremo consiglio ad ammettere che tuttavia la decisione finale è di posporre i negoziati a dopo l’inaugurazione di Raisi. Il gioco politico dei conservatori iraniani si porta dietro due tipi di problemi, in parte collegati.

Gli Stati Uniti hanno già ammesso che trattare con l’amministrazione del nuovo presidente potrebbe essere più problematico, soprattutto perché i negoziati potrebbero essere soggetti a questo genere di mosse propagandistiche (i conservatori ne hanno bisogno, perché nonostante la vittoria elettorale non hanno il consenso di larghe fette della collettività), e poi perché potrebbe avere una linea negoziale più dura (frutto anche di una minore disponibilità culturale al contatto con l’Occidente, prediligendo relazioni con Russia e Cina). Il secondo problema è tecnico: avviare negoziati con una nuova squadra scelta dalla presidenza Raisi potrebbe protrarsi per mesi, col rischio che quanto finora costruito possa distruggersi sotto i colpi del tempo e richiedere di ripartire quasi da zero.

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