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In una fase così complessa, com’è quella che caratterizza l’attuale congiuntura internazionale, soffermarsi su un singolo episodio può portare a grossolani errori di valutazione. Meglio, quindi, allungare lo sguardo, seguendo l’evolversi, seppure di breve periodo, della situazione. E non anticipare giudizi sommari. Tanto più che alle difficoltà del momento si sommano i comportamenti spesso imprevedibili dei principali protagonisti. A partire dall’attuale inquilino della Casa Bianca, sempre più infastidito dall’atteggiamento di Vladimir Putin, moderno Temporeggiatore come al tempo delle guerre paniche. Pronto a sfruttare ogni debolezza dell’Occidente.

Fosse stato questo l’atteggiamento, l’opposizione non si sarebbe imbarcata in una critica così decisa nei confronti di Giorgia Meloni, con l’accusa di aver disertato prima quel treno per Kiev, al seguito dei Volenterosi, quindi il successivo incontro di Tirana. Nelle dichiarazioni dei principali esponenti dell’opposizione quel comportamento era stato visto come la dimostrazione plastica dell’isolamento internazionale dell’Italia. Altro che ponte tra l’Europa e l’America di Trump! Critica giustificata o semplice abbaglio?

“Nel giro di pochi giorni”, ha scritto il Corriere della sera, commentando con il senno del poi quegli avvenimenti, “lo scenario si è completamente capovolto per la nostra premier: dipinta come isolata a Tirana, ora è di nuovo al centro di una complessa rete di sforzi diplomatici. Due giorni fa era stata la Cancelleria di Berlino, attraverso il suo portavoce, a rivelare candidamente che la Casa Bianca aveva richiesto la presenza di Meloni nelle conference call che in queste ore si susseguono fra le due sponde dell’Atlantico. E questo mentre il Financial Times scriveva che Merz si era in qualche modo adoperato per colmare le distanze, e le incomprensioni, fra Eliseo e Palazzo Chigi.”

In conclusione quindi l’opposizione ha nuovamente perso l’occasione per dimostrarsi all’altezza della situazione. Mostrando una superficialità di giudizio che non gli fa certo onore. Ma soprattutto la distoglie dagli interrogativi veri che la complessa situazione internazionale pone al mondo intero. Dilemmi che riguardano le strategie dei principali attori dalla cui evoluzione dipenderà gran parte del futuro prossimo venturo. Donald Trump naviga, da tempo, in un oceano in tempesta. La sua è un’America in crisi, vissuta negli ultimi anni al di sopra delle proprie possibilità, grazie al credito del resto del mondo. La competizione commerciale ha creato uno squilibrio strutturale nella sua bilancia dei pagamenti, compensato solo in minima parte dalle voci non trade (servizi e redditi primari).

La finanza pubblica è fuori controllo, con un deficit di bilancio (oltre il 6% del Pil nella proiezione decennale) tale da far inorridire i puristi di Maastricht ed un debito federale che scimmiotta i valori italiani. Poche, quindi, le possibili risorse, per sostenere il peso della di una potenza militare sempre più oneroso. Ancor meno per garantire quella riduzione del carico fiscale, che il neo Presidente aveva promesso in campagna elettorale. In un simile contesto, stante una mancata sintonia con l’Europa e gli altri Paesi Occidentali (si pensi solo al Canada e al Giappone), l’idea di Trump sembrerebbe essere quella di poter dividere la Russia dalla Cina, al fine indebolire la forza relativa dei propri avversari. Quindi realizzare una sorta di triunvirato nella gestione del Pianeta. Stati Uniti (piattaforma del Nord America: dal Canada a Panama, con l’aggiunta della Groenlandia ed il controllo dell’Artico), Russia e Cina. Una qualche attenzione al Medio Oriente, per le grandi ricchezze finanziarie di quei Paesi. Ma per tutto il resto sovrana indifferenza, salvo eventuali compensazioni, come nel caso delle terre rare dell’Ucraina.

Il tentativo di dividere i Paesi del vecchio blocco socialista, com’è noto, era stata una brillante idea di Henry Kissinger agli inizi degli anni ‘70. Un’ipotesi che aveva, tuttavia, un solido retroterra fattuale. Il contrasto ideologo e di potere tra le élites dei due Paesi socialisti risaliva al XX congresso del PCUS, che si era svolto a Mosca nel 1956 ed aveva segnato la rottura con il vecchio stalinismo. Che invece i leader cinesi non erano disposti a rinnegare. Da qui l’accusa di revisionismo contro il potere moscovita.

“Un elemento importante di svolta – come ha ricordato recentemente l’Ispi (30 novembre 2023) – fu rappresentato dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia nell’estate del 1968, che da parte cinese venne interpretata come un chiaro monito a Pechino in stretto legame con la dottrina Breznev della “sovranità limitata”: un monito che si sarebbe trasformato presto, non molti mesi dopo, in un allarme nazionale quando gravi incidenti tra cinesi e sovietici scoppiarono nell’area del fiume Ussuri.” I cinesi, in altre parole, furono i primi a capire da che parte era meglio stare, anticipando di una decina d’anni (1976) la famosa intervista di Enrico Berlinguer sulla Nato, come “ombrello protettivo” sotto il quale era meglio rimanere.

Il gioco americano, a sua volta, era il risultato della guerra del Vietnam, ed il trauma che ne era derivato. Essa aveva dimostrato che, benché nemici, russi e cinesi erano disposti a collaborare quando si trattava di difendere i propri interessi strategici. Da qui la necessità di fare tutto il possibile per interrompere future intese. La linea, tracciata da Richard Nixon, ma seguita da tutti i successivi Presidenti. Fino al punto – colpevole nel frattempo l’avvio di quel processo di globalizzazione che aveva fatto nascere gli animal spirits anche nel deserto collettivistico – da favorire la sua partecipazione al Wto, (dicembre 2001). Che segnò il vero decollo dell’economia cinese In versione capitalista.

Potrà riuscire oggi, come spera Trump, l’operazione inversa? Puntare cioè su un rapporto preferenziale con Putin, per rompere “l’amicizia senza limiti” tra quest’ultimo e Xi Jinping? Difficile crederlo. Finora la loro convergenza è stata evidente. A Putin il compito di fare il lavoro sporco, violando tutte le regole del diritto internazionale. Ma lasciato libero di soddisfare le proprie pulsioni ancestrali. Un ruolo da guastatore e, al tempo stesso, il tiro alla fune. Da una lato, da parte di quest’ultimo, l’esaltazione del caro Donald, considerato mediatore affidabile sulla vicenda ucraina. Dall’altro le continue accuse rivolte all’Europa, spesso in sintonia con i giudizi delle stesso Trump, accusata di essere minacciosa e guerrafondaia. Come se la militarizzazione dell’economia russa non fosse sotto gli occhi di tutti.

Facile, allora, vedere dove vuole andare a parare. Alle parole, infatti, si stanno accompagnando le minacce, sempre più forti, contro alcuni Stati europei. Come sta avvenendo lungo i confini della Finlandia, o con le continue violazioni dello spazio aereo della Romania. Per non parlare, infine, della situazione critica della Lituania. Talmente critica dall’aver spinto il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il ministro della Difesa Boris Pistorius – mai successo prima – a dislocare in quel Paese di frontiera soldati e carri armati, pronti a fronteggiare eventuali attacchi. Analizzando i vari fatti, le conclusioni appaiono, pertanto, evidenti. L’obiettivo è quello di dividere l’Europa dagli Stati Uniti. Di accentuare il solco che già separa le due sponde dell’Atlantico. Con il retro pensiero di puntare alla disarticolazione di tutto l’Occidente. Una sorta di risiko a rovescio. Come se fosse un gioco. Ma che purtroppo tale non è.

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L’obiettivo di Washington è quello di dividere l’Europa dagli Stati Uniti. Di accentuare il solco che già separa le due sponde dell’Atlantico. Con il retro pensiero di puntare alla disarticolazione di tutto l’Occidente. Una sorta di risiko a rovescio. Come se fosse un gioco. Ma che purtroppo tale non è. L’analisi di Gianfranco Polillo

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