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Le violenze in Medio Oriente hanno colto alla sprovvista un po’ tutti.

Gli Stati Uniti, con il presidente Joe Biden che sta tentando di riportare la situazione alla calma utilizzando la sponda dell’Egitto e, stando a quanto riferito da Axios.com, avrebbe deciso di inviare il diplomatico Hady Amr a Tel Aviv.

Ma anche Israele. Il quotidiano israeliano Haaretz ha rivelato che fino a lunedì la Difesa israeliana non credeva che Hamas, ritenuta da diversi Paesi come gli Stati Uniti e dall’Unione europea un’organizzazione terroristica, fosse pronta e disposta a una simile escalation.

I razzi di Hamas e le violente proteste della popolazione araba in città israeliane come Lod, Ramle, Giaffa, Akko hanno avuto un altro effetto: quello di dare nuovo spazio al primo ministro Benjamin Netanyahu nel bel mezzo dei colloqui tra il centrista Yair Lapid, che ha tempo fino al 2 giugno per assicurarsi la maggioranza alla Knesset e formare un nuovo governo, e l’uomo in ascesa nel centrodestra Naftali Bennett. Il premier è apparso in pubblico accanto a Benny Gantz, ministro della Difesa e suo ormai ex alleato di governo: un fatto che non si verificava ormai da diversi mesi viste le tensioni tra i due, che hanno portato a marzo alle quarte elezioni in soli due anni.

Dinnanzi a sé Netanyahu ha due sfide: rilanciare la sua immagine di unico in grado di proteggere Israele e far sì che i tentativi di Lapid e Bennett naufraghino.

In questo senso, bisogna registrare che Mansour Abbas, leader del partito arabo Ra’am, ha deciso di sospendere le trattative con i vertici di Yesh Atid e Yamina. Senza i suoi voti, Lapid e Bennett non sono in grado di raggiungere i 61 seggi necessari alla Knesset per formare un nuovo esecutivo anti Netanyahu. La nascita di un governo con Ra’am potrebbe aprire una nuova stagione politica in Israele, non soltanto perché sarebbe la prima volta di un partito arabo al potere. Ma anche perché probabilmente segnerebbe la fine politica di Netanyahu, l’uomo che Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beiteinu, ha definito “positivo per Hamas. È la ragione per cui Israele ha perso la sua deterrenza”. Ma se ne riparlerà soltanto una volta che la situazione sarà rientrata, ha spiegato Abbas che ha invitato la popolazione alla calma.

Allora, però, le tensioni di questi giorni potrebbero aver lasciato scorie. Tra i sostenitori di Ra’am così come tra quelli di Yamina, tra le cui fila già nei giorni scorsi si registrava un certo malumore verso quella che Ayelet Shaked, numero due del partito, ha definito un’“assurda coalizione” con la sinistra e la formazione araba. E, come notavamo già nei giorni scorsi su Formiche.net, se dopo Netanyahu, anche Lapid dovesse fallire, potrebbe non restare che un soluzione: il ritorno alle urne per le quinte elezioni in due anni e mezzo.

Se gli israeliani sono chiamati al voto sempre più di frequente, opposto è il discorso per i palestinesi. Il presidente Abu Mazen, ormai debole rispetto a Hamas, due settimane fa ha rinviato a data da destinarsi (fino a quando non sarà “possibile votare anche a Gerusalemme est”) le elezioni previste per il 22 maggio: sarebbero state le prime dopo 15 anni.

A soffiare sul fuoco ci sono la Turchia e l’Iran, decisi a pesare di più nell’assetto post Accordi di Abramo. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha espresso sostegno contro “il terrorismo e l’occupazione di Israele” al presidente Abu Mazen e Ismail Haniyeh, capo di Hamas, in due colloqui telefonici separati. Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, invece, è in Siria e tra gli incontri in agenda ci sono quelli con i leader dei gruppi palestinesi di base a Damasco (tra cui la Jihad islamica).

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