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Ai miei venticinque affezionati lettori risparmierò l’inestesismo del “che vi avevo detto?” perché non solo è un po’ cafone e poi nasconderebbe l’inoppugnabile verità: non ci voleva poi così tanto per capire che cosa sarebbe successo col voto di domenica e lunedì. Bastava annusare un po’ l’aria. Registravamo sabato scorso sul versante destro un odoraccio di sconfitta prodotto da candidature sbagliate, conflitti tra sovranisti, approssimazioni.

Un vincente a Destra? Il “moderato Berlusconi”, che, come un crooner di lungo corso potrà cantare “My way” con l’occhio rapinoso, mentre al pianoforte ci sarà l’Occhiuto presidente della Calabria, che ha salvato la faccia a tutta la compagnia. A sinistra il Pd porta a casa sindaci rilevanti – oltre il segretario Letta che torna in Parlamento a rappresentare la terra di Siena – e il Movimento Cinque Stelle si accascia come un budino riuscito male, con risultati sconfortanti anche per un soggetto politico che le amministrative le perde sempre.

Su tutto aleggia lo spettro della fuga dalle urne, con un voto medio che non supera il 50% alle amministrative mentre alle suppletive è andato ancora peggio: si pensi che la partecipazione al voto nel collegio che ha eletto Letta ha superato appena il 35% mentre quella del collegio di Roma Primavalle, dove è stato eletto l’altro Pd Casu, è andata intorno al 44%. Quando manca dalla metà al 60 e passa per cento dei votanti si inquadra con più fatica un risultato che non potrà essere automaticamente proiettato sulle aspettative per le elezioni politiche generali.

Comunque dobbiamo abituarci ad un andamento sempre più dissociato tra politica ed elettori, ormai da anni in marcia verso un altrove diverso dalla rappresentanza nelle assemblee elettive, pascolo lasciato alla minoranza attiva. È un problema serio, che la politica – tutta la politica – ha pensato di risolvere rincorrendo il ritmo dei social e delle parole d’ordine emozionali: un errore che già mostra la corda. Cosa accadrà adesso? Niente di trascendentale: forse qualche riaggiustamento negli assetti interni dei perdenti – Salvini potrebbe trovare una tregua armata nel suo partito e forse no – ma niente che cambi il destino di governo e legislatura.

A far capire come stanno veramente le cose è la campanella di Mario Draghi che ha subito suonato la fine della ricreazione e la ripresa della marcia fattuale del governo chiamando all’adempimento della riforma fiscale. Per come si son messe le cose nel rapporto politica-premier, Draghi potrebbe davvero imporre tutto in questo momento, perfino l’obbligo vaccinale contando sul silenzio assenso degli oltranzisti (per tentativo di captazio elettorale). E potrebbe, se volesse, proiettarsi verso il Colle fatale con voto unanime: anche quello di Meloni.

Ribadiamo un concetto già espresso alla vigilia elettorale: tra sette giorni al massimo s’ammoscerà lo spettacolo dei commenti sul voto, sicuramente importante, ma circoscritto al territorio e non automaticamente trasferibile sul piano nazionale. Resterà l’appassionante fiction quirinalizia fino alle porte di febbraio. Poi comincerà il lungo rush verso le elezioni del 2023 (?). Si svolgeranno in terra incognita e bastarda, proporzionale nella forma ma con forte effetto maggioritario nella sostanza, come conseguenza del taglio dei parlamentari. Sopravviveranno quattro, forse cinque partiti. E allora le alleanze avranno un senso decisivo.

Tanto per capirci, se pure considerassimo un Pd in buona salute, col 23/24 %, come potrebbe candidarsi al governo del Paese con un alleato – il M5S – che fa fatica a stare intorno al 10%? “È un mondo difficile e vita intensa, felicità a momenti e futuro incerto”, diceva Tonino Carotone. Chissà se pensava alla vita del politico.

Phisikk du role - Il voto, la fiction quirinalizia e il lungo rush verso le elezioni

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