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Il capo della politica estera dell’Unione Europea, l’Alto rappresentante Josep Borrell, ha detto nei giorni scorsi che il comportamento del governo talebano fino ad ora è stato “non molto incoraggiante” e che qualsiasi collasso economico in Afghanistan aumenterebbe il rischio di terrorismo e altre minacce. Lo spagnolo ha poi precisato che attualmente è molto difficile pensare che l’Unione europea possa aprire a Kabul un ufficio o qualsiasi alto genere di rappresentanza diplomatica. Le ragioni sono di due generi: sicurezza e politica.

Non che non ci abbia provato l’Europa: una squadra di diplomatici europei è stata recentemente in Afghanistan per alcuni giorni, ma la mancanza di interlocutori e la scarsa collaborazione da parte dei nuovi amministratori del potere hanno dimostrato come le condizioni siano – “almeno per ora”, spiegano fonti Ue – impossibili. In più c’è la questione sicurezza: nei giorni scorsi la più importante moschea della capitale afghana è stata colpita da un attentato esplosivo, e nelle ultime tre settimane lo Stato islamico nel Khorasan (Iskp) è tornato a farsi notare rivendicando trenta attacchi.

Il sogno ambizioso che ha seguito la presa talebana di Kabul, stabilire una linea di comunicazione diretta con il gruppo jihadista (che qualcuno raccontava come edulcorato, diverso dai predecessori del Mullah Omar) sostanzialmente è già svanito. Allo stesso tempo serve un canale di comunicazione però, anche per inviare gli aiuti umanitari che saranno indispensabili per evitare il collasso dell’economia (e dunque sociale) del Paese. E Borrell è stato chiaro e pragmatico anche su questo: c’è già il Qatar, che da tempo dialoga con i Talebani e può fornire una piattaforma di contatto. Un ruolo su cui Doha intende investire per giocare nella Champions League della politica internazionale.

La questione delle rappresentanze diplomatiche sarà discussa alla riunione speciale del formato G-20 che l’Italia ha organizzato per il 12 ottobre. Come detto dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, inviare aiuti al Paese è fondamentale – per evitare sia le sofferenze della popolazione ma anche con lo scopo più geopolitico di facilitare l’ordine interno, per evitare che il malcontento si trasformi in lotta e dunque sfoci in una guerra civile a ricaduta regionale. E però, l’assenza di strutture diplomatiche di contatto con il governo potrebbe rendere la gestione complicata: essenzialmente: non esistono forme di controllo, tantomeno di garanzia, che gli aiuti arrivino alla popolazione.

Le migrazioni massicce che in molti avevano predetto davanti alla presa del potere da parte dei Talebani non ci sono, almeno per ora – ma certo è che l’attenzione europea si concentra su questo aspetto, e la necessità di assistenza al Paese e contatto con il gruppo mira anche a scongiurare migrazioni future attraverso la ricerca di quell’ordine interno. Poi c’è la sfera terrorismo: in Afghanistan la principale opposizione ai Talebani è l’Iskp, un gruppo jihadista d’impronta baghdadista che cerca di sovrapporsi alle varie milizie armate nell’area provando a dimostrare la dimensione regionale della sua forza, e dunque della sua minaccia.

Nei giorni scorsi, il Regno Unito ha inviato in Afghanistan la prima delegazione diplomatica di contatto per parlare con i Talebani. Londra non riconosce il nuovo potere di Kabul, ma cerca anch’essa una qualche forma di dialogo (in forma indipendente per quanto possibile, ossia poco). Intanto ha ottenuto il rilascio di Ben Slater, cittadino britannico detenuto nelle carceri afghane. Anche gli Stati Uniti parlano da molto tempo con alcuni rappresentanti del gruppo, in incontri condotti a Doha sotto l’azione degli sherpa qatarini (sono questi che hanno portato all’accordo con cui gli Usa hanno lasciato il paese, d’altronde). Ma il problema è anche che i Talebani non sono un’organizzazione omogenea: alla linea più dialogante degli uomini di Doha si abbinano altre più radicali. Questo rende difficile l’interlocuzione.

Impossibile per i Paesi occidentali offrire riconoscimento a un governo composto da criminali di guerra e terroristi come i membri della rete Haqqani per esempio, mentre altre realtà la cui narrazioni in politica estera ruota maggiormente attorno al pragmatismo – come Cina o Russia, ma anche Pakistan o Iran e in parte gli stati del Golfo – hanno provato approcci più diretti. Pechino e Mosca hanno attive le ambasciate a Kabul, ma la loro funzione è più che altro di comunicazione politica – messaggio: siamo presenti dove l’Occidente non può esserlo, per visione e per paura. Sia i russi che i cinesi pensano alla sfera sicurezza prima di tutto, cercano di mantenere contatti con i Talebani (tutti), ma temono di subire attentati.

Ma chi garantisce quella sicurezza? Nei giorni scorsi erano circolate foto sfocate con cui si intendeva raccontare l’arrivo  di militari cinesi a Bagram, una grande base militare a nord di Kabul usata ai tempi dagli Stati Uniti. L’ambasciatore del Partito/Stato in Afghanistan ha pubblicamente smentito: non ci sono militari cinesi, ed è molto probabile che le sue parole non cercavano di dissimulare ma erano real. La Cina non intende essere coinvolta direttamente – sebbene sarebbe stato ottimo per la narrazione la sostituzione degli americani a Bagram, il cui abbandono è tema di dibattito tra stellette del Pentagono.

Pechino, così come Mosca e Washington e Bruxelles, vorrebbe che fossero i Talebani a garantire la sicurezza interna. I Talebani anche in questi giorni hanno provato a darsi spin politico propagandando un’operazione anti-terrorismo contro l’Iskp. La Russia ha appoggiato lo spin: la Tass ha scritto che le forze di sicurezza talebane hanno fermato cinque uomini dell’Is vicino l’ambasciata. Ma siamo ancora a livello di tentativi se si considera lo scarso controllo territoriale, le difficoltà tecniche di coordinamento, l’incapacità e l’impossibilità di usare le armi trovate nelle polveriere dell’esercito afghana, nonché le potenziali collusioni. La situazione sul terreno è tutt’alto che stabile, la lettura di Borrell è realistica.

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