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Se è vero come è vero che i Talebani stanno puntando nel rimettere in funzione il prima possibile l’aeroporto di Kabul, è altrettanto vero che il Paese che più si sta attivando per assistere i nuovi governanti dell’Afghanistan è il Qatar — e non solo su questo fronte. Lo scalo è un simbolo, che nasconde più dell’aspetto tecnico. Scenografia ormai iconica delle immagini in cui quelle persone fuggivano dal regime venturo del mullah Baradar accalcate lungo le piste sperando nell’ultimo, disperato aiuto occidentale. Farlo ripartire serve al gruppo afghano per mandare un’immagine all’interno, raccontarsi stabili e affidabili per i cittadini che dovranno amministrare, ma anche per proiettare una forma di accountability verso l’esterno. Uno scalo internazionale di nuovo funzionante e sicuro (per quel che è possibile: poco), significa che l’Emirato islamico talebano si è rimesso in moto come un paese normale. Sebbene tutti sappiano che non lo sia, per primi i qatarini, sono proprio loro che stanno cercando di sfruttare la situazione per costruirsi l’immagine definitiva di interlocutori internazionali. Sul dossier sono in vantaggio: nel 2013 vinsero la partita, con benedizione americana, per ospitare la sede diplomatica (globale, si passi il termine) del gruppo — che da quando il Mullah Omar lo fondò intanto si stava evolvendo. Quell’ufficio ha ospitato le dinamiche diplomatiche (adesso al centro di polemiche) che hanno portato gli americani a chiudere l’accordo di ritiro con Baradar e compagni. Dinamiche su cui i funzionari qatarini hanno fatto ben più che da anfitrioni. Adesso raccolgono i frutti: muovono ingegneri sulla pista di Kabul mentre le basi americane sul loro territorio (una su tutte, Al Udeid, l’enorme sede del Comando Centrale poco fuori Doha) hanno fatto da scalo ai voli con cui i C17 della US Air Force hanno salvato concittadini e collaboratori afghani.

Il Paese dell’emiro Al Thani ha anche un altro ruolo in questo momento: ospiterà molte delle ambasciate internazionali che hanno lasciato l’Afghanistan davanti alla presa talebana, preoccupate per la sicurezza e per il futuro delle relazioni con i governanti jihadisti. Quel “internazionali” in questo caso va letto come “occidentali”, perché a quanto pare Russia e Cina hanno intenzione di continuare a tenere aperte le sedi diplomatiche di Kabul — sebbene sia l’una che l’altra stanno un po’ raffrenando gli slanci iniziali. Ma è legittimo che entrambi i Paesi decidano di gestire l’Afghanistan da altri ganci (i cinesi dal satellite Pakistan, e magari i russi da qualcuna delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale con cui stanno tentando di stringere ancora i rapporti sfruttando la crisi di sicurezza prodotta dalla caduta di Kabul).

L’Italia, come ha annunciato dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio durante la sua visita a Doha, sarà uno di quei Paesi che cercherà nel Qatar la sponda fisica per la gestione dell’ambasciata afghana, e dunque anche quella diplomatica per trovare migliori chiavi di lettura sul nuovo emirato di Kabul: “L’ambasciata sarà spostata a giorni”. Doha sta accettando una sfida, gigante economico poco armato e per lunghi anni sotto isolamento da parte di dei del Golfo, il Qatar sfrutta la riconciliazione di Al Ula e l’alleanza strategica con la Turchia come moltiplicatori. I qatarini non sono più sotto la scure di Arabia Saudita ed Emirati Arabi, che avevano portato una serie di paesi regionali (e non) a rompere i rapporti con loro; e contemporaneamente trovano la sponda di Ankara, che si è mostrata già disposta a compiere operazioni e attività spregiudicate. Piccolo fra i grandi, insieme alle leve di politica internazionale muove quelle del soft power, una su tutte i Mondiali 2022, che ospiterà sebbene in mezzo a varie polemiche (l’acquisto di Harrods o del Paris Saint German con adesso Leo Messi sono investimenti remunerativi ma pensati per questa stessa pagina della questione, così come le quote del fondo sovrano in Barclays, Volkswagen e Sony, e così come l’ideazione di Al Jazeera).

Il Qatar è stato recentemente invitato al G7 allargato sull’Afghanistan, per ragioni logistiche (militari) dialoga costantemente con la Nato, per business con il G20 (e non servivano i Talebani). Doha ha avanzato la più concreta delle proposte sulla crisi afghana: 7 miliardi di dollari da fornire alle casse talebane finché non stanno in piedi da sole (se mai ci staranno). Non è aprire una linea di credito ai jihadisti, ma è una visione pragmatica che altri Paesi (come quelli occidentali) non possono permettersi perché non possono (almeno ancora) investire fiducia nei Talebani. I qatarini lo sanno e mettono davanti i fatti, hanno vinto hanno preso il Paese, e propongono un’assistenza che può anche servire da contenimento. Per i Talebani le finanze sono importanti, perché la popolazione è sfiduciata e spaventata: una migliore prosperità è, in Afghanistan come ovunque, termine per la tenuta sociale. Doha dice questo: se forniamo noi i soldi per tenere in piedi la baracca, loro devono ascoltarci, altrimenti chiudiamo i rubinetti e viene giù tutto.

È un pragmatismo che piace molto al segretario di Stato americano Anthony Blinken, ma anche a Cina e Russia — che vorrebbero rubare terreno nelle relazioni con Doha, che per ora sfrutta i limiti (anche volontari) degli altri. Al Qatar conviene che nessuno riconosca i Talebani per restare così l’unico loro interlocutore. In un quadro regionale in distensione; con la crisi afghana che allo stesso tempo è un terreno difficile dove nessuno si vuol far coinvolgere di nuovo (anche se poi tutti finisco con l’esserlo) e un dossier dove è in vantaggio; con relazioni vaste che vanno dalle potenze globali all’Iran e Israele; Doha gioca nella Champions League degli affari internazionali. Ma non è priva di contraddizioni. Le raccontano i tanti incidenti sul lavoro nella preparazione di Qatar 2022; ne parlano le pieghe di una società tribalista e di una monarchia assoluta dove tutti i poteri ruotano attorno alla famiglia al Thani. Che vede l’essersi costruito questo ruolo da indispensabili per la Comunità internazionale con estrema soddisfazione, ma sa che tutto rischia di essere momentaneo se i Talebani non rispetteranno certe traiettorie. Anche per questo Doha continua a portarsi avanti su altro: domenica 5 settembre per esempio c’è stata una riunione ministeriale con i sauditi per l’attivazione del Business Forum Arabia Saudita-Qatar, un altro pezzo di quella regione in ricomposizione.

Se Doha gioca nella Champions League degli affari internazionali

Il Qatar ha un ruolo indispensabile nella crisi afghana che sta utilizzando per diventare un interlocutore anche su altri dossier. Ecco quali

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