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È sorprendente l’inerzia dell’Unione europea davanti alla tragedia afghana. Nessuno può dire di aver scorto un attivismo politico, diplomatico e militare dal 15 agosto, dall’infausto giorno in cui gli “studenti coranici”, più propriamente noti come talebani, presero Kabul. A parte i tentativi di Mario Draghi volti ad innescare iniziative tese a proiettare l’Europa come protagonista, unitamente ad altri soggetti, nella vicenda che riguarda i nuovi assetti mondiali nascenti dalla sconfitta dell’Occidente in Afghanistan, nulla da Bruxelles di rilevante è emerso in merito.

I dormienti governanti dell’Unione continentale si sono limitati a quale sporadica dichiarazione da parte del vice-presidente della Commissione Josep Borrel e a poche altre frasi biascicate da qualcuno che rappresenta il Parlamento europeo. Gli Stati membri hanno adottato la “strategia del distacco” ritenendo la vittoria talebana una questione americana, lasciando a Joe Biden di sbrogliarsela lui, pur sapendo che l’Afghanistan è stato “donato” il 29 febbraio dello scorso anno da Donald Trump ai talebani con il famigerato accordo di Doha sul quale, se la memoria non ci inganna, l’Europa non avvertì il bisogno di far sentire la sua pur flebile voce e magari mostrare qualche timida opposizione allo sciagurato appeasement americano con i mallevadori del terrorismo internazionale. Appeasement giustificato da Trump e dalla sua amministrazione, senza l’opposizione del democratici va ricordato, a cominciare dallo stesso Biden che con il mandato di Obama aveva seguito per otto lunghi anni il dossier sull’Afghanistan.

Gli americani dovevano tornare a casa, secondo il Pentagono che convinse il presidente della perduta partita giocata per vent’anni a Kabul. Centinaia di morti, miliardi di dollari gettati al vento, disillusioni crescenti e una stanchezza da parte degli statunitensi per una guerra che sentivano estranea ai loro interessi, sostennero le ragioni del disimpegno, mentre i talebani, rifugiati e cresciuti nelle gole afghane, nell’esilio pakistano, nelle più fetide madrasse di Kabul, Herat, Mazar-I-Sharif, fino alle propaggini dell’Indo Kush, presidiate dagli eredi del Leone del Panshir, il generale Mohammed shah Massud, assassinato dai killer di Osama bin Laden, internati perfino nelle prigioni americane non escluso il campo di detenzione di Guantanamo, si organizzavano e indirizzavano la rivincita utilizzando la debolezza americana e più complessivamente dell’Occidente.

L’Europa, con il suo atteggiamento svagato, consapevole che quella in Afghanistan non era la sua guerra anche se i suoi soldati, la sua intelligence, il suo denaro erano parti essenziali della “causa”, lasciò fare a Trump e non si accorse che dietro i sorrisi compiaciuti degli eredi del mullah Omar, da lui indottrinati ed avviati sulla strada della vendetta, non c’era neppure un segno di buona volontà da parte dei talebani convinti che dopo vent’anni di permanenza occidentale sulla loro terra, non sarebbe mai nata una nuova nazione afghana per la negligenza di chi avrebbe dovuto promuoverla. Il Paese sarebbe rimasto, governato da una nomenclatura incapace e perlopiù corrotta, un mosaico di tribù dominato dalla etnia Pashtun, con tanti saluti alla democrazia “esportata” (secondo il modello Rumsfeld-Cheney), ma non realizzata.

In venti anni che cosa hanno fatto gli europei per far comprendere agli americani che stavano sbagliando tutto, a cominciare dalla scelta degli interlocutori fino alla resa per probabile stanchezza? Nulla. Assolutamente nulla. I dossier sull’Afghanistan sono rimasti a raccogliere polvere nelle cancellerie dell’Unione e neppure un abbozzo di reattività è stato mai registrato. Sempre agli ordini degli americani, proni ai loro voleri e assecondando i loro errori, gli europei hanno pianto a scadenze quasi regolari i loro morti, gli italiani ben cinquantatré, ma non hanno mosso un dito per tentare di affermare la necessità di costruire finalmente, dopo la fine della banda di Osama, la crisi al Qaeda e la morte prematura del mullah Omar, una nazione afghana orgogliosa della sua identità e lontana dalla logica miserabile della sharia e dell’ islamismo integralista.

Se gli americani non ritenevano di farlo, gli europei avrebbero dovuto ingaggiare una guerra più insidiosa al talebanismo jihadista, ai gruppi che raggiungevano l’Afghanistan per creare nuovi santuari di terrore, come l’Isis le cui nere bandiere sono ricomparse attorno all’aeroporto di Kabul ed in altre città dove non mancheranno di rilanciare, dopo la disfatta in Mesopotamia, la sfida terroristica all’Occidente ed in particolare all’Europa.

Cosa avrebbe potuto e dovuto fare l’Unione di Stati che non ha saputo neppure valutare la insignificanza della Nato in questa complessa e drammatica vicenda? Crediamo che ipotizzare, quanto meno, una autonomia strategica rispetto agli Stati Uniti sarebbe stato doveroso. Se Biden dice che i suoi militari erano laggiù, non per partecipare al “Grande Gioco”, come avveniva sul calare del XIX secolo con il protagonismo delle potenze europee, ma per difendersi dalle incursioni terroristiche islamiste, l’Europa avrebbe dovuto quanto meno ricordare al presidente americano che quanto a vittime del jihadismo essa ha pagato negli ultimi vent’anni un prezzo particolarmente alto e dunque, contati ognuno i propri morti, o gli europei venivano associati alle decisioni statunitensi che inevitabilmente li avrebbero riguardati, oppure si sarebbero dovuti industriare a fare per conto loro.

Prendendo in considerazione, per esempio, la creazione di una forza militare autenticamente europea, legata inevitabilmente ad un progetto euro-atlantico, ma in grado di muoversi su tutti i fronti geopolitici per tutelarsi ed offrire un apporto decisivo a Paesi come l’Afghanistan lasciato sostanzialmente solo, guardato da gendarmi che hanno garantito un banale ordine civile fin quando gli è convenuto, illudendo un popolo che guardava all’Occidente con la speranza che l’impulso alla ricostruzione portasse alla “invenzione” di una nuova nazione.

È questo quello che l’Europa avrebbe potuto fare e non ha fatto. Ora è accomunata nella disfatta occidentale. E da Kabul, dopo che l’ultimo aereo sarà partito, non ci sarà da attendere una nuova primavera. Intanto il fronte europeo diventerà inevitabilmente “caldo”.

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