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Come sappiamo bene, il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha rimesso al centro dell’agenda mondiale un tema decisivo: i dazi. La nuova politica commerciale americana, basata su barriere tariffarie e tutela interna, sta già modificando gli equilibri internazionali.

Paesi esportatori come Australia e Canada si sono trovati costretti a reagire, anche politicamente, per difendere l’accesso ai mercati esteri. Il risultato è stato chiaro nelle ultime elezioni: non una vittoria ideologica della sinistra, ma una scelta pragmatica per chi garantiva protezione economica senza avventurismi. Una dinamica che riguarda da vicino anche Giorgia Meloni, oggi figura centrale della destra europea, e che impone una riflessione urgente anche a Trump: come coniugare identità nazionale e gestione realistica della globalizzazione?

Australia: proteggere l’export asiatico

Il 3 maggio 2025, Anthony Albanese ha guidato il Partito Laburista a una larga vittoria parlamentare. L’Australia vive delle sue esportazioni verso l’Asia e, in parte, verso gli Stati Uniti: minerali, energia, agricoltura, alta tecnologia.

Di fronte alla minaccia dei dazi americani, l’elettorato ha scelto chi garantiva stabilità diplomatica e capacità negoziale. Peter Dutton, leader liberale di opposizione, ha pagato l’adozione di toni populisti troppo vicini allo stile di Trump, visti come un rischio ulteriore per un’economia già esposta.

Canada: evitare la guerra commerciale

Il Canada è storicamente uno dei principali partner commerciali degli Stati Uniti. Alle elezioni federali del 28 aprile 2025, Mark Carney ha portato i Liberali a una nuova vittoria, proprio su una piattaforma incentrata sulla difesa dei rapporti commerciali internazionali.

Carney ha promesso stabilità, negoziati bilaterali, difesa dell’export canadese contro le tariffe americane. Pierre Poilievre, pur rafforzando il Partito Conservatore, non è riuscito a scrollarsi di dosso l’immagine di una linea troppo aggressiva, più capace di alzare tensioni che di proteggere gli interessi nazionali.

Regno Unito: la reazione identitaria

Diversa, invece, la situazione britannica. Il Regno Unito, dopo la Brexit, ha una relazione commerciale con gli Usa che la Casa Bianca ha sostanzialmente lasciato fuori dagli annunci che hanno scosso i mercati. Di conseguenza, il tema dei dazi americani ha avuto un impatto marginale sulla campagna elettorale.

Il successo di Reform UK di Nigel Farage — 677 seggi municipali, il primo deputato a Westminster, un sindaco di area — si è basato su temi identitari: sovranità, controllo dei confini, critica radicale dell’immigrazione.

Qui la reazione dell’elettorato è stata interna, nazionale, non condizionata dalle dinamiche commerciali globali.

La sfida strategica per Meloni e Trump

La lezione è chiara:

– Nei Paesi fortemente esportatori, vince chi promette stabilità economica e difesa degli interessi commerciali.

– Dove il legame commerciale con l’America è meno diretto, prevale una spinta identitaria più netta.

Per la destra internazionale si apre una stagione di scelte.

Giorgia Meloni, che ha saputo costruire in Europa una destra di governo credibile, deve ora portare questa esperienza anche sul piano globale: difesa dell’identità, sì, ma insieme a difesa dell’export, dell’industria, del lavoro nazionale.

Donald Trump, dal canto suo, dovrà decidere se procedere con una politica di rottura permanente o costruire, da leader globale, un equilibrio che non isoli l’America dai suoi alleati tradizionali (è il senso anche delle ultime riflessioni di Warren Buffet).

La destra internazionali è capace di vincere molte elezioni, ma deve ancora costruire una piattaforma comune: non sarà semplice.

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