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Due navi da guerra britanniche saranno di stanza permanente tra le acque dell’Asia. Faranno base soprattutto in Giappone, sebbene in modo non fisso. E il loro dispiegamento partirà da fine anno, al rientro in patria dell’ammiraglia “HMS Queen Elizabeth“, la più grande portaerei d’Europa (qui il nostro viaggio a bordo), che a sua volta userà Yokosuka, quartier generale della Settima Flotta della Us Navy, come scalo durante il suo primo viaggio all’estero. La notizia sulla decisione di Londra l’ha data il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace, mentre parlava da Tokyo con a fianco l’omologo locale, Nobuo Kishi.

La decisione di Londra è politica e scavalca gli aspetti tecnici: secondo un’analisi di Defense News, la maggior parte dei cacciatorpediniere della Royal Navy sono attualmente fuori servizio per varie ragioni (tra questi per esempio c’è il “HMS Diamond”, che ha avuto problemi tecnici all’inizio di questo mese mentre scortava proprio il gruppo d’attacco guidato della Queen Elizabeth in un dispiegamento nella regione dell’Indo-Pacifico).

Se il ministro britannico ha sottolineato “l’inclinazione Indo-Pacifico” del suo Paese  e la condivisione di obiettivi con Tokyo (tra cui “proteggere coloro che non sono in grado di proteggersi dagli avversari che li minacciano”), l’omologo giapponese ha sottolineato che i due Paesi “cercano di proteggere e sostenere l’ordine internazionale basato sulle regole”.

Lo aveva sottolineato Michito Tsuruoka, professore associato ed esperto di sicurezza internazionale all’Università Keio di Tokyo, durante un’intervista con Formiche.net prima dell’incontro di aprile tra il presidente Joe Biden e il premier giapponese Yoshihide Suga, primo leader a incontrare il nuovo inquilino della Casa Bianca: Tokyo cerca sponde in Occidente “non soltanto su Cina e Corea del Nord ma anche su dossier come il Mar Cinese Orientale e Taiwan, questione di cui fino a poco tempo fa in Giappone si parlava molto poco”. Su quest’ultimo tema, la musica è cambiata di recente: basti pensare che Taiwan non è più colorata come parte della Cina nel nuovo libro bianco della Difesa giapponese pubblicato la scorsa settimana.

La recente assegnazione delle due navi da guerra rafforza la dimensione dell’impegno britannico nell’Indo-Pacifico, e conferma come la Global Britain guardi a Oriente. Le acque asiatiche sono viste dal Regno Unito come un moltiplicatore: se, infatti, da un lato l’inserimento nel contesto di difesa e sicurezza regionale permette a Londra di implementare i rapporti con i partner dell’area, dall’altro la presenza porta i britannici in testa al gruppo degli alleati storici a cui gli Stati Uniti stanno chiedendo impegno in quella zona.

L’idea americana è, infatti, cercare di costruire un fronte attivo per il contenimento dell’ascesa cinese, e di farlo partendo dal rafforzamento della presenza geopolitica nel territorio che il partito-Stato individua come naturale sfera di influenza quanto meno per vicinanza geografica e contaminazioni culturali. A questo si lega la costruzione politica della regione dell’Indo-Pacifico, pensata dal Giappone per necessità, sfruttata dagli Stati Uniti per volontà, colta dal Regno Unito per opportunità. E l’obiettivo americano sta anche nel traslare le relazioni transatlantiche su questa strategia.

Quando Londra sceglie il dispiegamento permanente di due navi da guerra fa uno scatto in avanti rispetto a tutti i partner occidentali degli Stati Uniti. Per capacità di proiezione o per volontà di impegno, finora solo la Francia si è mostrata pronta a un coinvolgimento più attivo, finalizzato anche alla tutela dei propri interessi tra i Territori d’Oltremare (paradigmatico il referendum pro Parigi in Nuova Caledonia). Coinvolgimento che nei giorni scorsi si è concretizzato nella riunione conto l’overfishing cinese nel Pacifico. Nel frattempo anche l’Unione europea sta per concepire una strategia per la regione, ma Bruxelles arriverà comunque seconda rispetto al Regno Unito, in una competizione tra alleati che assume un valore ulteriore nel primo anno definitivamente post Brexit.

I due ministri hanno rilanciato la collaborazione sul jet di sesta generazione F-X, su cui lavorano assieme dal 2017, anche in chiave Tempest, il caccia multiruolo stealth sviluppato da un consorzio anglo-italo-svedese che coinvolge anche Leonardo.

A dimostrazione che la cooperazione tra i due Paesi è politica, strategica, militare e industria. Ma anche economica e tecnologica. Due esempi. Il primo: a giugno il Regno Unito ha firmato proprio con il Giappone il suo primo accordo di libero scambio post Brexit. “L’accordo dimostra che il club Indo-Pacifico, di cui fanno parte altre potenze del Commonwealth, è una robusta base su cui edificare intese di ogni tipo. Economiche, ma anche di intelligence visto che il Giappone è membro ormai stabile del 6-Eyes, integrando il Five Eyes anglo-americano”, spiegava mesi fa a Formiche.net Francesco Galietti, analista di scenari geopolitici, fondatore e Ceo della società specializzata di consulenza Policy Sonar. Il secondo: parallelamente all’accordo con Tokyo, il governo di Londra, guidato da Boris Johnson, aveva confermato che la giapponese Nec lavorerà sullo sviluppo del 5G nel Paese dopo il ban imposto da Londra sulle tecnologie made in China, ossia Huawei e Zte.

(Foto: il ministro Kishi riceve l’omologo Wallace, Twitter @DefenceHQ)

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Di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi

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