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C’è chi lavora per destabilizzare la politica italiana. Più cresce il consenso di Draghi, più s’alza il controcanto delle minoranze di potere. Fa parte di questo gioco il tentativo di disegnare a tavolino lo scenario del prossimo anno, specialmente per quel che riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica. Non si nasconde, da parte di alcuni, il desiderio di modificare il corso della vita democratica: nuovo inquilino al Quirinale, nuove elezioni subito appresso. In questo modo l’Italia entrerebbe in un ciclo di ritrovata incertezza, mentre lo sforzo di unità, oggi incarnato dall’esecutivo di larghe intese, andrebbe vanificato.

Bisogna tenere la barra dritta. Forse riusciremo ad evitare, se la politica di vaccinazione va avanti bene, la ricaduta autunnale nel gorgo della pandemia. Ci sono forti segnali di ripresa dell’economia, benché stenti a manifestarsi un’adeguata vitalità del nostro Mezzogiorno. A Palazzo Chigi il motore gira a pieno regime e tutta l’amministrazione pubblica, dai ministeri agli enti locali, sta operando con slancio mai prima conosciuto. Non si vuole perdere l’appuntamento con il programma di aiuti della Unione Europea. Siamo di fronte a un’occasione storica, unica e irripetibile, rispetto alla quale si misura fatalmente la credibilità della classe politica.

Chi fa da perno, quanto a responsabilità politica, in questa grande operazione di riscatto e rigenerazione del Paese? È lecito immaginare che la competizione autorizzi i partiti – nessuno escluso – a conquistare ogni spazio utile per guadagnare consenso. Così avviene in condizioni normali, figuriamoci nell’attuale contingenza storica. Eppure la campana della responsabilità suona per ognuno di noi. Quindi, suona anche e soprattutto per il Pd, dal momento che l’equilibrio di governo contempla una sua naturale centralità.

Se il Pd non cambia, come in fondo s’è detto nel passaggio da Zingaretti a Letta, a fatica può accreditarsi come il motore del cambiamento. Per questo le elezioni amministrative sono il banco di prova della volontà di rinnovamento che alberga nelle stanze del Nazareno. A parte la questione delle alleanze, su cui pende il pericolo di subalternità rispetto a una tendenza populistica non ancora riassorbita dal corpo elettorale, si tratta di predisporre una nuova immagine del partito.

Prendiamo il caso di Roma. La candidatura di Gualtieri è sicuramente una garanzia di serietà e competenza. Come si accompagna, però, questa proposta di leadership? Se fosse velata dal compromesso di apparato, con l’ansia di soddisfare equilibri di altri tempi, di certo andrebbe sprecata una grande opportunità. E non è detto che un elettorato esigente – basti pensare alla tenuta, malgrado tutto, di Calenda nei sondaggi – sia disposto a “mandare giù” la versione burocratica di un progetto meritevole di ben altra tensione politica.

Proviamo allora a buttare sul tavolo il jolly, facciamo vedere come il Pd sia disposto a cambiare volto, a fare il salto che serve in termini di programmi e personale politico, dando spazio alla conformazione di una partito ‘democratico e popolare’, veicolo di sano e autentico pluralismo nella coerenza di visione riformatrice. Roma può essere il campo di una coraggiosa sperimentazione. Perché non chiamare all’impegno, per dare forza domani al gruppo consiliare, chi esercita ruoli importanti nelle istituzioni? Perché non aprire la lista con una o più figure autorevoli, anche esterne al partito, principalmente con l’obiettivo di ‘parlare’ alla città con la voce del riformismo più genuino, secondo una traiettoria che possa unire iconograficamente Nathan e La Pira? Perché, infine, non prevedere che anche il simbolo di partito sia fatto oggetto di una qualche integrazione grafica, così da rimarcare la scelta in direzione della novità? Questa è la nostra scommessa.

Ora i tempi stringono. Quello che vale per il Campidoglio vale naturalmente per altri Comuni. A Roma tuttavia vale come dato esemplare, per l’unicità di storia e tradizione della città. Anche chi non è romano è interessato infatti a capire se nella Capitale prende forma un processo che insieme alla rigenerazione della città può contribuire a determinare la rigenerazione stessa dell’Italia. Non raccogliere la sfida, per pigrizia intellettuale o negligenza politica, significherebbe deteriorare oltre misura la credibilità del Pd.

Che fare a Roma? Scrive Giuseppe Fioroni

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