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Forse Nicola Zingaretti lascerà all’Assemblea nazionale del Pd della prossima settimana oppure raddoppierà tornando in sella tra i battimani – chissà quanto sinceri – di tutte le correnti. Forse Giuseppe Conte scioglierà negli stessi giorni la riserva e diventerà anche ufficialmente il capo di un MoVimento sempre più campo d’Agramante.

Fatto sta che l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi ha scompaginato l’ex maggioranza giallorossa e le leadership dei due principali partiti che lo supportavano. Il che fa dire a qualche anima bella che la coalizione che sostiene l’ex presidente della Bce ora pencola a destra, visto il protagonismo di Matteo Salvini (molto meno quello di FI) che non a caso di fronte allo sfarinamento del fronte opposto si è precipitato a dire che l’esecutivo può contare “sull’apporto e il supporto compatto” del Carroccio.

È inevitabile che dopo decenni passati a recitare il medesimo canovaccio, le forze politiche fatichino a svincolarsi dal continuo esercizio di tatticismo.

Tuttavia se c’è una cosa che va ricordata e sottolineata è che il governo Draghi, frutto di una precisa e coraggiosa scelta del capo dello Stato, nasce non da una impasse politica ma da un collasso di sistema: e che perciò è l’intero sistema che deve correre si riparti riassestandosi.

Leggere le dinamiche dell’azione di governo con gli occhiali delle appartenenze o dei singoli interessi vuol dire non aver contezza di quanto sta accadendo. Il tentativo di Draghi, piaccia o meno, va nella direzione di rimettere in sicurezza il Paese e di realizzare un’intelaiatura riformistica adeguata per consentire all’Italia di riprendere la strada dello sviluppo, al di fuori della quale più che un declino c’è il tracollo. L’uso sapiente dei fondi del Nex generation Ue e la definizione di un piano vaccinale straordinario e adeguato sono i pilastri su cui si regge il tentativo di SuperMario.

Questa roba non è né di destra né di sinistra: semplicemente è l’unica cosa da fare. Il che non significa che quelle categorie politiche, come altre anime belle da tempo scandiscono, siano da rottamare o seppellire sotto la polvere della Storia.

Al contrario vuol dire che destra, sinistra e centro – qualunque sia il significato che ciascuno vuole dargli – debbono contribuire a rimettere in sesto la baracca riconquistando così fiducia e appezzamento da parte dei cittadini e poi una volta usciti dalla crisi competere con le ricette che ognuno stilerà per il governo del Paese.

È comprensibile che un siffatto compito sbalordisca chi scommette sul disfacimento dell’avversario per sgombrarne poi le macerie o, peggio, immaginare di sedercisi sopra per assaporare in solitudine il nettare del potere. Peccato che però non funzioni così.

O l’agenda Draghi, chiamiamola per facilità in questo modo, è fatta propria da tutte le forze in campo, ciascuna con la propria specificità e qualunque sia il posizionamento che decide di assumere, oppure SuperMario affonderà ma si trascinerà appresso i sogni e la volontà di riscossa di Paese intero.

Chi si pasce nel tanto peggio tanto meglio, di norma non si pone il tema dell’interesse generale. Chi dovesse, a maggior ragione in un passaggio difficilissimo come l’attuale, giocare a disarticolare il governo fomentando le spinte centrifughe di una maggioranza composita, eterogenea, innaturale ma obbligata perché è delirante immaginare di risollevare l’Italia e sconfiggere la dannata pandemia escludendo questo o quello, facendo leva solo su una fetta di cittadini o vellicando l’isolazionismo dei “migliori” a scapito di tutti gli altri, metterebbe gli italiani di oggi e ancor più quelli di domani a rischio di una sconfitta, come va di moda dire, epocale.

Ovviamente ciò non significa assecondare supinamente tutto quello che arriva da Palazzo Chigi assumendo un atteggiamento fatalista o servile. All’opposto, è necessario che tutte le forze politiche diano il meglio di se aiutando Draghi a raggiungere il traguardo. Suggerendo e criticando, laddove necessario. Valorizzando un appeasement virtuoso che oggi come oggi equivale a pioggia sul deserto.

dimissioni zingaretti potere

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