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Durante il vertice Nato che si è tenuto il 14 giugno a Bruxelles sono stati discussi temi di importanza strategica, come i rapporti dei Paesi dell’Alleanza con la Cina e l’atteggiamento da tenere nei confronti della Russia di Putin. Le posizioni degli alleati su questi temi non sono apparse univoche e le diplomazie hanno dovuto faticare a trovare i giusti accenti con i quali costruire il comunicato finale. Quello che tuttavia è risultato evidente è un elemento solo apparentemente marginale: il totale isolamento “fisico” oltre che politico del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan.

Dopo essere stato definito dal presidente del Consiglio Draghi un “dittatore e un autocrate”, il presidente turco ha dovuto anche subire le dure reprimende del Dipartimento di Stato americano che, al termine della “guerra degli 11 giorni” tra Israele e Hamas, non ha esitato a condannare con in linguaggio insolitamente duro alcune sue dichiarazioni pubbliche rese nei primi giorni di guerra, quando per sottolineare il suo pensiero nei confronti della leadership israeliana ha definito Benjamin Netaniahu “il primo ministro ebreo”.

L’uso sprezzante del termine “ebreo” invece di “israeliano” ha fatto scattare la reazione dell’amministrazione Biden. Il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price è stato incaricato di dichiarare “la forte e inequivocabile condanna per i commenti antisemiti del presidente turco”, e lo ha invitato a smetterla di fare “proclami incendiari… anche perché l’antisemitismo non deve avere spazi di agibilità”.

Dopo aver faticato per anni per diventare una vera potenza regionale, la Turchia di Erdogan si trova oggi ai margini della scacchiera politica e l’espressione smarrita del leader turco che traspare dalle fotografie del vertice Nato del 14 giugno, che lo mostrano fisicamente isolato dagli altri capi di Stato e di governo, appare come l’icastica testimonianza dell’irrilevanza alla quale, grazie all’avventurismo del suo presidente, la Turchia è stata condannata, dopo un decennio di spregiudicate mosse politiche e militari avventate e controproducenti.

Già nella primavera del 2010, per dimostrare di essere in prima fila nel sostegno alla causa palestinese, Erdogan autorizzò la costituzione della “Freedom Flotilla” un convoglio navale in grado di sfidare, sotto l’egida della bandiera turca, il blocco navale israeliano sulle coste della Striscia di Gaza.
Il 31 maggio di quell’anno, commandos israeliani intercettarono la Mavi Marmara, una nave che, oltre ad aiuti umanitari, trasportava militanti di Hamas che tentavano di rientrare clandestinamente nella Striscia.

Appena i soldati israeliani misero piede sul ponte della nave turca vennero affrontati da palestinesi e membri dell’equipaggio armati di asce, coltelli e spranghe di ferro. Negli scontri che ne seguirono morirono 10 tra palestinesi e marinai turchi, ma la ferita più grave venne inferta alle relazioni turco-israeliane.

Ankara ruppe le relazioni diplomatiche con Gerusalemme, relazioni storiche che datavano dal 1949 quando la Turchia fu il primo, e per molti anni l’unico, Paese musulmano a riconoscere lo Stato di Israele, interrompendo anche importanti relazioni economiche e militari che rappresentavano per tutto il Medio Oriente l’esempio di come fosse possibile percorrere strade di integrazione e di pacificazione tra musulmani ed ebrei.

Dal 2011, con l’esplosione delle cosiddette “primavere arabe”, Erdogan ha tentato in tutti i modi di assumere un ruolo di direzione in una corrente di eventi che, più che a esportare la democrazie liberale nella regione, mirava a sancire la vittoria della “Fratellanza Musulmana” e dell’Islam più retrivo e integralista.

Pensando di risolvere facilmente la sua competizione con la Siria degli Assad e di liquidare contemporaneamente il problema dell’irredentismo dei curdi turchi e siriani, Erdogan è intervenuto pesantemente nella guerra civile siriana fornendo aiuti militari e sostegno logistico non soltanto alle milizie della “Syria Liberation Army” ma anche alle formazioni dei salafiti di “Jabhat Al Nusra” e, addirittura, dell’ISIS.

Si sa come è andata: dopo un decennio di guerra civile la Siria è in macerie ma Bashar al Assad è ancora al potere, i ribelli sono ormai rinchiusi in piccole sacche di resistenza e la Russia che è intervenuta a fianco di Damasco rovesciando le sorti del conflitto è saldamente insediata nel Paese mentre Ankara non solo è esclusa dal promettente business della ricostruzione della Siria, ma si trova a gestire un’imponente emergenza-profughi.

L’attivismo di Erdogan, nelle sua ricerca a volte sconsiderata di far assumere al suo Paese il ruolo di prima potenza regionale, lo ha portato a intervenire nella crisi del Nagorno Karabach a sostegno dei turcomanni azeri, contro gli armeni cristiani, con il risultato che dopo l’ultima crisi dell’autunno del 2020, la Turchia si è dovuta fare da parte per lasciare alla Russia il ruolo di forza di interposizione e di pace.

Anche in Libia, dopo aver inviato armi e mercenari al sostegno del Governo di Accordo Nazionale di Al Serraji, dopo le dimissioni di quest’ultimo nello scorso gennaio, il ruolo turco si è fatto meno influente rispetto alle aspirazioni del leader di Ankara.

Nel 2017, Erdogan nel vano tentativo di mandare un segnale agli alleati Nato e Usa, ha acquistato dalla Russia sistemi missilistici terra aria S-400, per un valore di 2,5 milioni di dollari.
La mossa non piacque all’allora presidente americano Donald Trump che immediatamente impose sanzioni economiche e militari alla Turchia, contribuendo al declino della sua economia e al suo progressivo isolamento internazionale.

E’ di questi giorni la notizia che, nel tentativo di avviare un riavvicinamento alla nuova amministrazione Biden, Erdogan abbia deciso di mandare a casa i tecnici russi che nella base di Incirlick, che è anche una base Nato, curavano la manutenzione degli S-400, con il risultato di far infuriare Vladimir Putin al quale ovviamente non sorride l’idea di vedere materiale altamente sofisticato nelle mani degli americani.
Il risultato finale di tutte queste mosse scomposte è che le sanzioni Usa restano in vigore mentre i russi non possono che pentirsi per essersi fidati di un leader inaffidabile.

Anche sul fronte interno, nonostante la repressione seguita al fallito golpe da operetta del 2016, le cose non vanno bene.

La profonda crisi economica, risultante da spese militari eccessive, scarsa capacità amministrativa e corruzione dilagante, nonché dai contraccolpi della pandemia da Covid 19, rende ancora più difficile la situazione del presidente turco e del suo partito, L’AKP (Partito del Progresso e dello Sviluppo), che insieme governano ininterrottamente dal 2002.

Le recenti elezioni amministrative, che hanno visto la sconfitta dell’AKP e i sondaggi elettorali segnalano che, nonostante l’alleanza tattica tra il partito di Erdogan e l’ultra nazionalista Movimento Nazionale, alle elezioni politiche e presidenziali del 2023 un successo del presidente e del suo partito appare tutt’altro che sicuro.

A rendere ancora più agitati i sonni di Erdogan è sicuramente lo “scandalo Peker” che i questi giorni campeggia sulle prime pagine di tutti giornali e sui social media della Turchia. Sedat Peker, un uomo d’affari già affiliato all’organizzazione di estrema destra dei “Lupi Grigi” (la stessa di Ali Agca, l’attentatore del papa) è stato per molto tempo un sostenitore di Recep Tayyip Erdogan ed è noto per essere stato uno dei principali fornitori di armi ai gruppi jihadisti impegnati nella guerra civile siriana.

Nello scorso mese di aprile dopo essere stato accusato di corruzione e di associazione a delinquere si è autoesiliato prima in Montenegro e poi negli Emirati Arabi Uniti da dove conduce un’incessante campagna contro Erdogan e il suo partito accusati di corruzione e di altri resati.

Sotto la supervisione interessata di Mohamed Dalhan, ex capo dei servizi segreti palestinesi nella striscia di Gaza esule negli Emirati dopo la rottura con Hamas, Peker ogni giorno inonda i social media di accuse contro i “cerchio magico” del presidente turco, a cominciare dal ministro degli Interni, Suleyman Soylu e del suo alleato Mehemet Agar, già Capo della Polizia, che a parere di Pekere sono responsabili non solo di corruzione, ma anche di estorsione, traffico di droga e omicidio. Accuse clamorose che dominano, nonostante la censura imposta dal governo, il dibattito politico in Turchia.

Mohammed Dalhan, l’agente segreto palestinese, aiuta Peker sia per spirito di vendetta nei confronti di Hamas e, di riflesso del suo sostenitore turco, sia perché il governo di Abu Dhabi, per cui oggi lavora, non ha visto con favore i tentativi di sabotaggio da parte turca degli “Accordi di Abramo” tra Israele e paesi arabi moderati e il sostegno esplicito offerto da Erogan ad Hamas durante la recente “guerra degli undici giorni”. Quest’ultima si è conclusa, peraltro, grazie alla mediazione egiziana, un successo diplomatico del fronte arabo modera che spinge sempre di più ai margini la Turchia e il suo leader costretti ormai ad avvicinarsi, loro sunniti osservanti, agli eretici sciiti dell’Iran, gli unici ormai che sembrano dar credito a Erdogan, ridotto come il cattivo studente in un angolo della classe, un angolo dal quale difficilmente riuscirà a uscire senza evidenti cambiamenti di rotta verso un approccio più moderato in politica interna e un ritorno verso occidente in politica estera.

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