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L’interesse degli Stati Uniti verso l’Africa è con ogni probabilità un elemento strategico che va oltre al momento simbolico dell’attuale visita di Joe Biden in Angola. Sebbene questa è la prima volta che un presidente americano visita il Paese, e dunque l’aspetto bilaterale è di rilievo, l’evento si colloca infatti nella più ampia cornice di una competizione globale via via marcata sul continente africano. L’imminente ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca rischia di ridefinire questa attenzione, spostandola su un terreno più pragmatico e transazionale, ma l’interesse generale al continente “is here to stay”.

Biden è arrivato in Angola per rilanciare il Lobito Corridor, un progetto infrastrutturale che mira a collegare le ricchezze minerarie della Repubblica Democratica del Congo e dello Zambia al porto di Lobito, sulla costa atlantica angolese. Si tratta di un’iniziativa dal profondo valore geopolitico (e connesso geoeconomico), rappresentando l’intenzione americana di lavorare per ridurre la dipendenza globale dalla Cina per i minerali critici, cruciali per la transizione energetica e le tecnologie avanzate. Un obiettivo ancora più determinante se si considera i fatti correnti sulla mossa di Pechino per bloccare gallio, germanio e antimonio. Pechino, soprattutto grazie all’infrastruttura geopolitica della Belt and Road Initiative, è ancora in vantaggio grazie a investimenti massicci e rapporti consolidati con alcune élite africane. Rapporti che formalmente Washington ha faticato a gestire soprattutto con l’ultima amministrazione, che ha fatto della difesa dei valori democratici un elemento ideologico su cui agganciare la politica estera. Il ritorno di Trump potrebbe dare una spinta più pragmatica a certe visioni.

Anche perché Pechino, seppure rallentando il ritmo degli investimenti della Bri in Africa (e non solo), non ha intenzione di fermarsi: il governo cinese sta per esempio valutando un progetto ferroviario concorrente a Lobito verso il porto di Dar es Salaam, in Tanzania. La grande domanda sul se governi come quello dell’angolano João Lourenço dovranno affrontare un contraccolpo legato alla imprevedibilità di Trump alla Casa Bianca, potrebbe trovare dunque risposta nel senso strategico dell’impegno americano nel continente — che al di là la di toni e modi del repubblicano, travalica l’arco temporale del mandato presidenziale e traguarda un orizzonte di lunga gittata. Sarà così?

Il progetto del Lobito Corridor, finanziato dagli Stati Uniti, può essere paradigmatico di come gli Usa si siano ormai posti sotto quest’ottica strategica. È analiticamente improbabile che Trump decida di modificare il programma, che include la costruzione e il rinnovamento di ferrovie per collegare il porto occidentale di Lobito a centri minerari critici in Zambia e nella Repubblica Democratica del Congo. Anzi mentre la posizione americana sul corridoio non verrà troppo cambiata rispetto all’amministrazione Biden, è plausibile che i consiglieri trumpiani trasformino il progetto in un’iniziativa più esplicitamente anti-Cina. Questo cambio di narrativa potrebbe alterare il tono delle tensioni geopolitiche nel continente, attirando maggiore attenzione su un’infrastruttura strategica che è già uno dei simboli discreti della competizione globale.

L’amministrazione democratica uscente ha cercato di presentarsi come un partner affidabile agli occhi delle controparti africane, puntando su cooperazione e multilateralismo. Il presidente Biden ha incontrato anche i leader di Congo, Zambia e Tanzania, sottolineando la volontà di ampliare la portata del coinvolgimento americano. Non sfugge che questo rinnovato interesse arriva in ritardo rispetto agli anni di crescente influenza cinese, all’entrata di nuovi attori come gli Emirati Arabi Uniti, che stanno costruendo solide relazioni economiche e politiche sul continente, e al contemporaneo interessamento di altri potenziali partner e/o competitor (vedi la Turchia).

Che direzione prenderà dunque la politica americana verso l’Africa con il ritorno di Trump? Ken Opalo, Associate Professor at Georgetown University, prova a rispondere alla domanda con un saggio uscito su Foreign Affairs, in cui conferma che il secondo mandato di Trump dovrebbe avere un approccio marcatamente transazionale, e sottolinea che sarà focalizzato su accordi bilaterali a breve termine piuttosto che su una strategia di lungo respiro. La logica di Trump, già evidente nel suo primo mandato, potrebbe puntare su risultati immediati, come il riconoscimento del Somaliland o la negoziazione di accordi commerciali con Paesi strategici — per esempio il Kenya. Tuttavia, questa impostazione potrebbe esacerbare le fragilità strutturali delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Africa, spiega Opalo, privando Washington della capacità di competere con Cina e Russia sul piano delle relazioni di lungo periodo.

Ci sono opportunità e rischi. Da un lato, l’approccio obbliga sia gli Stati Uniti che i Paesi africani a focalizzarsi su interessi concreti, superando il tradizionale paternalismo americano fondato su aiuti umanitari e promozione della democrazia. Dall’altro, rischia di ridurre ulteriormente la percezione strategica del continente a Washington, lasciando spazio a potenze rivali. La Cina, in particolare, con la sua capacità di offrire pacchetti di finanziamento significativamente superiori, al netto delle trappole del debito, rimane un attore dominante nei settori delle infrastrutture e dei minerali critici. E nel frattempo, la Russia consolida la sua influenza in regioni come il Sahel, sfruttando la debolezza delle politiche occidentali e spazi lasciati dalle problematiche securitarie.

L’Africa, dunque, si trova al centro di una competizione globale che ne sottolinea in sé l’importanza strategica. Se da un lato l’attenzione americana, che si tratti del multilateralismo democratico di Biden o del pragmatismo transazionale di Trump, è segnata da contraddizioni e limiti strutturali, dall’altro offre opportunità per Paesi come l’Italia, che vede nel continente una parte centrale della sua proiezione internazionale. In questo contesto, l’arrivo dell’amministrazione Trump diventa una sfida anche per il “Piano Mattei” italiano che rappresenta non solo un pilastro della politica estera di Roma, ma anche una piattaforma di cooperazione con partner globali. E gli Stati Uniti, con la loro capacità di mobilitare risorse e influenza, si configurano come interlocutori naturali per Roma nel realizzare iniziative congiunte nei Paesi africani. Progetti come il Lobito Corridor potrebbero trovare un punto di incontro con le ambizioni italiane, aprendo spazi di collaborazione che rafforzino sia la presenza europea sia la capacità di contrastare le pressioni cinesi.

In quest’ottica, si fonde l’interesse trumpiano per risultati concreti e immediati e quello strategico italiano. L’Africa è di fatto il terreno su cui si giocano partite cruciali per l’ordine globale, e diventa anche per questo un policy-tester. L’esito di queste sfide dipenderà dalla capacità degli attori internazionali di costruire partnership che vadano oltre la logica delle opportunità, rispondendo contemporaneamente alle esigenze di sviluppo e stabilità del continente. Se gli Stati Uniti sapranno bilanciare pragmatismo e visione strategica, l’Africa potrà diventare non solo un campo di competizione, ma un luogo di cooperazione globale, e l’Italia potrebbe essere già pronta a giocare un ruolo di primo piano.

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