Il report “Week Ahead” di una delle più importanti società di consulenza del mondo suggerisce ai clienti che questa potrebbe essere la settimana in cui Israele attaccherà l’Iran per vendicare lo scotto subito con i bombardamenti del primo di ottobre, quando 181 missili balistici caddero sul territorio dello stato ebraico, perché l’Iran voleva vendicare a sua volta lo schiaffo sfrontato con cui Israele aveva eliminato Ismail Haniyeh, leader di Hamas ucciso mentre era a Teheran. Quest’ultima è stata una delle grandi operazioni israeliane con cui in questo anno di guerra sono state disintegrate le leadership di Hamas e Hezbollah, due delle più importanti milizie che compongono l’Asse della Resistenza, ossia quell’insieme di gruppi politici armati organizzati dai Pasdaran per essere il vettore dell’influenza regionale iraniana. Per questo Teheran si era vendicata, consapevole che poi avrebbe subito una vendetta conseguente.
Attacco al petrolio?
La valutazione di chi si occupa di analizzare il geopoitical risk (ossia la consulenza che sempre più aziende richiedono per comprendere il quadro ampio attorno al loro business) sta in ciò che seguirà quell’attacco, dato quasi per scontato, come dimostrano anche le informazioni di intelligence raccolte dagli Stati Uniti e fatte uscire con un leak su un profilo Telegram pro-Iran — vicenda che a sua volta ha innescato una storia nella storia che parla di spionaggio, contro-spionaggio e vulnerabilità. Poi ci sono spifferate ai media sulla ricerca di autorizzazione politica definitiva da fornire alle forze armate. La chiave è innanzitutto economica e geoeconomica. C’è preoccupazione per i mercati, entità vasta, spesso citata in termini eccessivamente generali, che in questo caso comprende sia il settore energetico che quello di altri beni. Il punto qui è: cosa verrà colpito? Come, dove, quando: quanto? Per esempio, le strutture petrolifere con cui l’Iran evade le sanzioni occidentali vendendo, tramite triangolazioni nebulose, petrolio alla Cina rientreranno nei target israeliani? Per logica, visto quanto quelle entrate sono importanti sia per mantenere l’economia iraniana (anche o soprattutto del sistema stato-nello-stato rappresentato dai Pasdaran), dovrebbero essere uno tra i primi obiettivi.
Ma gli Stati Uniti avrebbero messo dei veti: temono che colpirle possa scombussolare il prezzo del greggio, disturbando direttamente anche l’Arabia Saudita e il Golfo in generale (le cui economie ed evoluzioni internazionali sono oggetto di un complicato processo di transizione, ma ancora vincolate agli idrocarburi). Gli americani sono anche direttamente interessati: temono che si abbiano riflessi sul cosiddetto “prezzo alla pompa”, quello che i singoli cittadini soffrono quando devono fare rifornimento. Per Washington, cercare di mantenere contenuti tali prezzi è storicamente un tema politico. E se un colpo arrivasse adesso, a 15 giorni dal voto presidenziale di Usa2024, sarebbe complicato. I Repubblicani lo userebbero per attaccare l’amministrazione Biden e dunque la candidata Dem, Kamala Harris, attuale vicepresidente. Peraltro, ci sarebbe da usare anche la riapertura di un conflitto in Medio Oriente, ossia nel teatro delle “endless war” di cui parla da sempre Donald Trump, incrociando un sostengo più ampio della sua base elettorale fanatica.
Simboli atomici
Da qui: mentre gli arabi-americani stanno criticando la posizione americana troppo pro-Israele e la usano come leva per non votare Harris, il rischio di esplosione di un conflitto è effettivamente reale. Un attacco contro il petrolio, per quanto logico, scatenerebbe una risposta dura dell’Iran. Alla luce di questo, gli Usa — che si sono già pesantemente rafforzati in Medio Oriente tra i dubbi del Pentagono — potrebbero essere in vario modo coinvolti. Sempre agli obiettivi si lega un altro livello di coinvolgimento: per Israele, che ha subito addirittura un tentativo di assassinio del leader Benjamin Netanyahu (storicamente un casus belli), potrebbe essere legittimo anche colpire la Guida suprema iraniana, Ali Khamenei. Sarebbe pazzesco, tanto quanto attaccare i siti nucleari, che sono ciò che fa dell’Iran una potenza di ordine superiore potenziale. Anche in questo caso ci sono veti americani, perché significherebbe una dichiarazione di guerra totale. E gli Stati Uniti sanno che dovrebbero entrare nel conflitto al fianco di Israele — e forse, anche alla luce del sostegno russo all’Iran, potrebbero (dovrebbero?) fare pressioni più ampie sugli alleati europei.
Il sistema militare e l’industria bellica
C’è poi la possibilità di colpire centri militari, su cui Washington sarebbe stata più lasca con Israele. Anche qui, la questione è legata al danno, oltre che al dove. Colpire caserme e produrre molte vittime, alla stregua di colpire centri produttivi e industrie della difesa potrebbe allo stesso modo generare una dura contro-reazione iraniana. Se le vite dei soldati contano, le fabbriche di droni e missili balistici sono fondamentali per l’Iran, oltre che connesse direttamente al controllo che i Pasdaran esercitano sul Paese. Sono infatti, e innanzitutto, il fiore all’occhiello dell’industria bellica e delle capacità militari della Repubblica Islamica: componente essenziale della capacità di attacco diretto e di quella che l’Iran esercita indirettamente armando le milizie più o meno controllate.
Per dire, due giorni fa è stato un drone iraniano lanciato da Hezbollah a colpire la casa dí Netanyahu a Cesarea — e Teheran ha potuto subito gestire l’aftermath dicendo di essere estraneo alle azioni dei libanesi, che però indottrina, arma, organizza e in qualche misura coordina. Droni e missili sono inoltre una componente essenziale dell’attuale economia iraniana: martoriato dalle sanzioni, l’Iran ha infatti potuto usare le evoluzioni dell’industria bellica per armare Paesi come la Russia che cercano a loro volta l’elusione dalle sanzioni o altri discutibili clienti (Siria, Sudan, Iraq, Tagikistan, e varie milizia) da cui capitalizzare proventi e influenza.
Narrazioni e interessi
Israele è consapevole dunque che qualsiasi opzione di attacco possa aprire un’escalation incontrollata. “Penso che sia in un vero dilemma”, commenta Yonatan Touval del think tank Mitvim. “Ha interesse a colpire l’Iran, nella misura in cui cerca di ristabilire la sua deterrenza contro l’Iran, che, da aprile, ha lanciato due attacchi diretti contro Israele. La rappresaglia di Israele dopo il primo attacco è stata in gran parte simbolica e, col senno di poi, non è riuscita a scoraggiare l’Iran dal colpire di nuovo, come ha fatto all’inizio di questo mese”, spiega Touval a Formiche.net.
“Allo stesso tempo — continua — Israele non ha alcun interesse a intensificare la situazione con l’Iran e deve calibrare il suo attacco in modo da ripristinare la deterrenza senza costringere l’Iran a vendicarsi”. Perché non è nell’interesse di Israele intensificare le questioni con l’Iran? “Consideriamo che né una grande guerra né una prolungata guerra di attrito servono gli interessi di Israele”.
Per l’esperto del think tank israeliano, questo è il motivo per cui Israele ha preso il tempo nel pianificare la risposta all’ultimo attacco dell’Iran. “È un equilibrio molto delicato e che alla fine potrebbe rivelarsi irraggiungibile. Ciò rende difficile prevedere come potrebbe svolgersi un tale attacco, e credo che Israele si stia preparando per una serie di scenari, tra cui la possibilità di un massiccio contrattacco iraniano”.
Una considerazione significativa sono anche gli interessi degli Stati Uniti, non è così? “Sappiamo che gli Usa sono attualmente orientati verso l’immediata de-escalation. L’amministrazione Biden è particolarmente riluttante a vedere una grande escalation su questo fronte così vicino alle elezioni del mese prossimo”, risponde Touval.