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Avvertenza: questo articolo può contenere qualche scoria di ragionamenti politically uncorrect. Si prega il lettore di cuore tremulo e di fede politicamente corretta, di assumerne solo dosi omeopatiche.

La figura di Franco Battiato è stata, giustamente, ricordata con un coro di contrite adesioni che forse, in cuor loro, mettevano riparo a qualche disattenzione seminata in vita. Soprattutto negli ultimi decenni. Del resto Battiato era un artista elusivo, che si esprimeva per ellissi e maneggiava sincretismi musicali e di pensiero con la cura del bilico e dell’ambiguità. Solo qualche coraggioso si è addentrato nei filosofemi del suo doppio, Marco Sgalambro, un pensatore nel senso rinascimentale del concetto, che aveva fatto dell’idea nichilista una pratica di vita di monastico-laicista ed una ispirazione per le ardite strutture testuali a servizio della musica di Franco. Ebbene Sgalambro e Battiato non furono gli epigoni di Mogol e Battisti, no. Scrissero densissimi labirinti concettuali che assecondavano la genialità cross-over del musicista, portando a compimento idee, gusti, scritture che accompagnavano dalle origini l’onnivoro artista etneo.

Pensieri in cui – ma questo si è detto – la cifra della mediterraneità si offriva volentieri come chiave. Ma dov’è la grandezza di un artista? Parlare al mondo lasciando che testo – leggibile in superficie – e sottotesto – pensato per i palati più raffinati – non misurino fra loro troppa distanza. Insomma: una coerenza del detto. Franco Battiato c’è riuscito, almeno per un certo tempo, fino a qualche generazione fa.

Battiato ha usato per dire la sua poesia anche un medium musicale che aveva la potenza del rock. 40 anni fa esplose il suo album più celebre, “La voce del padrone”. Può essere un esercizio interessante l’analisi dei testi, tutti di Battiato, di alcuni di quei celeberrimi brani, come per esempio Sentimiento nuevo. È una canzone intrisa di erotismo cerebrale, raccontato così: “Le tue strane inibizioni/Non fanno parte del sesso/ I desideri mitici di prostitute libiche/ Il senso del possesso che fu pre-alessandrino/ La tua voce come il coro delle sirene di Ulisse m’incatena/ Ed è bellissimo perdersi in quest’incantesimo”. E ancora: “Tutti i muscoli del corpo/pronti per l’accoppiamento /Nel Giappone delle geishe/Si abbandonano all’amore/ Lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco/ La lotta pornografica dei greci e dei latini/ La tua pelle come un’oasi nel deserto ancora mi cattura”. È un lussureggiare di assonanze concettuali, di orme classicheggianti, di curiosità orientalistiche e profumazioni mediterranee. Sì, forse, qualche residuo reminiscente di traumi da traduzioni greche e latine al liceo, ma sta bene mixato col resto e poi gli fa strada nell’immaginario dei ragazzi che compravano il vinile, trovando qualche risonanza famigliare.

E che dire del “Centro di Gravità Permanente”, che sarebbe diventato l’inno degli orfani della Democrazia cristiana di lì a qualche lustro? “Una vecchia bretone/ Con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù/ Capitani coraggiosi/ Furbi contrabbandieri macedoni/ Gesuiti euclidei/ Vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori/Della dinastia dei Ming”. Ma si può continuare con i sarcasmi urticanti contro il potere di “Sul ponte sventola bandiera bianca”: “Quante squallide figure che attraversano il Paese/ com’è misera la vita negli abusi di potere”, o “Quei programmi demenziali con tribune elettorali”, e, inoltre “A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie”, concludendo con “Uh! com’è difficile restare calmi e indifferenti/ mentre tutti intorno fanno rumore”. Quasi dieci anni dopo Federico Fellini avrebbe espresso in immagini più o meno gli stessi concetti ne “La voce della Luna”.

“La voce del padrone” vendette un milione di copie in Italia. E non fu un fenomeno raro, in un tempo in cui si ascoltava (e vendeva) musica di De André, di Bob Dylan, di Cohen, di Patty Smith, di De Gregori, con diffusione generosa. Un milione di giovani di 40 anni, dunque, fa spesero 14.000 lire sonanti per comprare un vinile che titillava la testa con le parole e le gambe con il ritmo rock.

Sorge spontanea la domanda: che cosa di così importante si è rotto negli anni a seguire da lasciare che il non-pensiero grottesco e la non-musica sintetica di personaggi come Fedez, Achille Lauro, ed altri innumerevoli cloni compulsivamente cliccati nel web, invadessero l’immaginario delle giovani menti italiane? Sarà un effetto collaterale del Covid non denunciato dagli scienziati per non spaventare la popolazione? “Povera Patria”, avrebbe detto Franco Battiato, concludendo, però, con una speranza che somiglia più a una preghiera: “Si può sperare/ Che il mondo torni a quote più normali/ Che possa contemplare il cielo e i fiori/ Che non si parli più di dittature/ Se avremo ancora un po’ da vivere/ La primavera intanto tarda ad arrivare”. E noi speriamo.

Battiato, un articolo politically uncorrect

Dov’è la grandezza di un artista? Parlare al mondo lasciando che testo – leggibile in superficie – e sottotesto – pensato per i palati più raffinati – non misurino fra loro troppa distanza. Insomma: una coerenza del detto. Franco Battiato c’è riuscito, ma cosa si è rotto, negli anni, nel mondo della musica e dei cloni compulsivamente cliccati del web?

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