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Il decreto per le proroghe di primavera con il quale il Ministro Brunetta ha rivisitato la disciplina sullo smart working in Pa è stato da molti battezzato come un ritorno alla normalità, ma nella realtà dei fatti è un’evoluzione.

Non potrebbe essere altrimenti. Infatti, siamo proprio sicuri che il ritorno alla normalità sia una cosa positiva? In termini sanitari certamente sì, ma in termini organizzativi è discutibile: non a tutti già prima andava bene quella normalità caratterizzata da una bassa produttività ingessata da anni, una burocrazia imperante che da sempre reagisce solo sotto la spinta dell’emergenza.

Lo smart working è un fatto nuovo: è partito come una caduta rovinosa sulle ali di un pipistrello cinese e si sta trasformato in alcuni casi in un bel tuffo – questo è il suggestivo titolo di un recente libro edito dalla Mercatorum University Press – ed ha messo in luce come un diverso modo di lavorare è possibile. Non è un caso che l’emergenza ha permesso di realizzare un percorso accelerato di competenze digitali a costo zero che nella normalità avrebbe richiesto anni, come avrebbe richiesto anni il confronto con le parti sociali e la messa a punto di accordi e protocolli.

In questo periodo si è compresa l’importanza dell’autonomia, della dematerializzazione, senza la quale il lavoro a distanza non è possibile, si è riscoperta l’importanza del fattore fiducia nell’ambiente di lavoro, quella che è sempre mancata, e non solo nel settore pubblico, ed è ritornata di moda la responsabilizzazione sugli obiettivi: l’asse portante della prima riforma Brunetta.

In questa prima stagione “smart working fai da te” sono mancati all’appello alcuni elementi che lo caratterizzano: una tra tutte la flessibilità, che il ministro ha voluto giustamente introdurre con l’ultima mossa. La flessibilità, però, non è solo legata alle esigenze dell’ente, a regime essa deve essere anche dei lavoratori e non riguarda solo l’alternativa tra lavoro in presenza e lavoro a distanza, ma riguarda anche gli orari, l’utilizzo degli strumenti informatici e degli spazi non necessariamente solo ufficio o casa.

Uno degli elementi che caratterizza lo smart working e di cui non si parla mai abbastanza, è l’impatto positivo sulla produttività dell’ente e sul benessere organizzativo dei suoi lavoratori: due elementi oggi non del tutto messi a fuoco, senza i quali lo smart working diventa un’altra caduta, un fallimento, la burocrazia che si somma alla burocrazia il cui costo è pagato da tutti. Da tutto questo si desume, invece, che lo smart working può costituire l’occasione per una grande riforma organizzativa che questa volta, però, parte dal basso, dalle esigenze delle singole amministrazioni.

Una riforma alla quale partecipano senza subirla anche i dipendenti pubblici e che poggia a monte sulla semplificazione normativa e a valle sulla transazione digitale e la reingegnerizzazione dei processi. La ruota del cambiamento ha iniziato a girare anche se lentamente e in maniera non omogenea in tutte le Pa. Non è una cosa da poco. Lo smart working costituisce quindi sotto il profilo organizzativo una grande occasione per mettere al centro del cono di attenzione il capitale umano della nostra Pa che implica la mappatura delle competenze, per chi ancora non lo ha fatto, utile anche per individuare quali fasi del lavoro sono smartizzabili e quali meno, un lavoro che si può portare dietro il ripensamento dei processi cogliendo l’occasione per semplificare le procedure interne eliminando tutti quei passaggi che costano, anche i termini di tempo, e che non danno valore aggiunto.

Tecnicamente si chiama analisi del valore, applicabile anche nel lavoro amministrativo e non solo nella produzione industriale, che si contrappone al rito consolidato “dell’abbiamo fatto sempre così perché lo prevede la norma”, per realizzare la quale serve più che il coinvolgimento degli uffici legislativi, il talento e la curva cumulata delle conoscenze ed esperienze di oltre tre milioni di dipendenti pubblici che per mancanza di modelli organizzativi abbiamo sempre rinunciato a coinvolgere.

La sfida che lo smart working ci costringe a raccogliere è evitare di realizzare a distanza la stessa burocrazia che si gestiva prima in presenza e questo a prescindere dalle percentuali di utilizzo del lavoro agile che si sono susseguite negli ultimi tempi.

A ben vedere nulla di nuovo sotto il sole: di benessere organizzativo e di incremento della produttività, la performance, si parlava già dai tempi della prima riforma Brunetta ed oggi con lo smart working rientra prepotentemente nei piani della performance. Oggi non è solo importante definire chi fa che cosa, ma è necessario anche dettagliare meglio come: senza incremento del benessere organizzativo e senza aumento della produttività, vale la pena ripeterlo, non solo lo smart working diviene un fallimento, ma lo diventa anche il nuovo modello organizzativo che si sta andando a delineare sullo sfondo.

La conclusione, quindi, è che lo smart working costituisce una grande opportunità, uno spartiacque destinato a segnare l’evoluzione della sociologia del lavoro dai tempi di Taylor e di Weber, un processo che è anche culturale e non era immaginabile solo qualche anno fa. Oggi, tuttavia, abbiamo una carta in più da giocare: la voglia di reagire, di fare insieme, che la pandemia, il distanziamento e l’isolamento ci hanno lasciato come eredità; potremmo definirla una domanda di partecipazione che non possiamo far cadere.

Se è vero che negli ultimi fotogrammi della storia mai si sono realizzati cambiamenti così veloci ed importanti, è altrettanto vero che mai saranno così lenti nel prossimo futuro. In questo solco si colloca anche lo smart working.

Brunetta e la PA, i consigli del prof. Hinna per una svolta smart

Siamo proprio sicuri che il ritorno alla normalità sia una cosa positiva in termini organizzativi? Il lavoro agile può costituire l’occasione per una grande riforma organizzativa che questa volta, però, parte dal basso. La sfida è evitare di realizzare a distanza la stessa burocrazia che si gestiva prima in presenza

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