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C’è molta curiosità per l’imminente arrivo a Roma del vicepresidente statunitense JD Vance, in particolare per la sua visita in Vaticano come evidenziato da Francesco Sisci su queste colonne. Gli italiani sanno ancora poco di Vance e ancora meno della sua storia personale. Tuttavia, molti sono rimasti delusi per le sgradevoli modalità con cui ha maltrattato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nell’ormai famoso scontro allo Studio Ovale in occasione del bilaterale con il presidente statunitense Donald Trump.

La collera contro Zelensky non ha sorpreso, invece, chi ha letto il libro di memorie che Vance ha pubblicato nel 2016, Elegia americana (titolo originale: Hillbilly Elegy). La violenza verbale è stata, infatti, un elemento costante nel drammatico contesto sociale e familiare che ha accompagnato l’infanzia e l’adolescenza del vicepresidente.  Non voglio giustificare la sua irritazione e perdita di controllo poco rispettosa del popolo ucraino che da più tre anni combatte contro l’invasore. Mi sembra utile, tuttavia, inquadrare l’episodio tenendo conto di alcuni tratti della personalità di Vance per come lui stesso si racconta.

Vance ha parlato dei suoi “demoni” e ha trovato il coraggio – e non è facile – di mettere in piazza i tanti guai combinati dai suoi genitori e i conseguenti sentimenti di paura, di impotenza, delusione e rabbia che hanno contraddistinto la prima parte della sua vita. In questa situazione familiare di sofferenza estrema, colpisce la gratitudine di Vance verso sua nonna che a un certo punto della sua vita diventerà il suo “approdo sicuro”. È lei a stimolare il nipote a darsi da fare, a studiare e lavorare sodo, ma anche a guardarsi intorno e analizzare il contesto sociale in cui la loro famiglia vive.

Leggendo il libro di Vance ho capito meglio quanto la situazione sia peggiorata dopo la chiusura delle fabbriche. Il declino industriale ha prodotto un sottoproletariato bianco che vive alla giornata (chi ha potuto permetterselo se ne è andato in altre parti degli Stati Uniti). Da trenta anni la società non si è solo impoverita economicamente, ma è anche una comunità “senza speranza”, per utilizzare un’espressione cara a papa Francesco.

A proposito di fede, Vance racconta che da piccolo non si rendeva conto che le opinioni religiose (ovvero le chiese evangeliche conservatrici) che aveva sviluppato con il padre stavano gettando i semi per un totale rigetto della fede cristiana. Tre anni dopo aver scritto la sua autobiografia Vance si convertirà al cattolicesimo e sarà battezzato nell’agosto del 2019.

A differenza di Trump, Vance attribuisce un ruolo fondamentale alla religione nello spazio pubblico. A questo proposito vale la pena di porsi tre domande conclusive alla vigilia della sua visita a Roma.

La prima: in che misura l’universalità intrinseca alla Chiesa cattolica è compatibile con la dottrina politica trumpiana dell’America First? Proprio in questi giorni mi hanno portato cattive notizie dalla Tanzania. Con la chiusura di Usaid, l’agenzia americana per lo sviluppo, è stato immediatamente sospeso l’invio di retrovirali ai bambini affetti da Aids. Sarebbe meraviglioso che a Roma Vance si preoccupasse di salvare i milioni di bambini africani che rischiano di morire (e non solo per l’Aids).

La seconda domanda riguarda la teoria della Peace First. L’esperienza militare diretta di Vance come Marine in Iraq (a seguito dell’invasione voluta dal suo collega repubblicano, il presidente George W. Bush) ha certamente suscitato in lui una grande prudenza sull’uso dello strumento militare; e questo è positivo.  Ma mi domando se non dovrebbe maggiormente tener conto della fondamentale distinzione tra guerra d’invasione e difesa. Come militare, Vance sa perfettamente che finché il leader russo Vladimir Putin non accoglie la tregua di un mese c’è un solo modo per proteggere efficacemente la popolazione civile ucraina dagli attacchi quotidiani dei missili russi. Per salvare vite umane devono inviare i Patriot o altre tecnologie di difesa aerea. Perché non si ripetano stragi come quella di Sumy, Vance premerà su Trump perché invii al più presto batterie antimissile?

Sempre in tema di pace, ricordo che negli ultimi 80 anni non c’è stata neppure una sola guerra tra Stati democratici. Ottant’anni sono pochi, ma chi può negare che questa evidenza empirica e il relativo nesso tra due valori fondamentali (pace e democrazia) siano quanto meno promettenti. Da questa considerazione nasce la terza domanda. Peter Thiel è da anni tra i principali mentori di Vance e scrive da anni che la democrazia è un disvalore e scrive saggi contro quella chiama la “tirannia della democrazia”. Che cosa ne pensa il vicepresidente degli Stati Uniti?

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