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Non saranno gli investimenti o gli accordi commerciali, tantomeno i contatti con le democrazie liberali a trasformare la Cina: l’analisi (per certi versi spietata) l’ha fatta Dani Rodrik, economista della Kennedy School di Harvard, che su Project Syndicate a metà mese ha messo insieme una serie di criticità dietro all’intesa Pechino-Bruxelles. “Non dovremmo giudicare il CAI (acronimo tecnico dell’EU-China Comprehensive Agreement on Investment, ndr) in base al fatto che consenta all’Europa di esportare il suo sistema e i suoi valori, ma in base al fatto che consenta o no all’Europa di rimanervi fedeli”.

Rodrik è una star dell’economia, e le sue parole devono aver rimbombato tra i corridoi di Berlino, dove ancora c’è chi pensa che il Wandel durch Handel, il cambiamento attraverso il mercato, sia una strada percorribile per portare la Cina dalla parte dei buoni– oppure per non far diventare consumatori e aziende europee in qualche modo complici di violazioni e abusi cinesi sul tema dei diritti umani. Sensibilità piuttosto delicata dietro all’accordo – stante alle indicazioni finora note – come analizzato su queste colonne da Gabriele Carrer, che notava le formulazioni vaghe sull’impegno di Pechino a rendere illegale il lavoro forzato.

“L’Europa ha consegnato alla Cina una vittoria strategica”, scriveva in un editoriale a commento del CAI Gideon Rachman a metà mese, con il suo giornale – l’iper influente Financial Times – che recentemente se l’è presa a più riprese con Berlino e con l’Europa per aver esagerato con l’autonomia e aver tralasciato il ragionamento su una strategia comune da portare avanti con gli Stati Uniti. “Come con la Cina, è vitale per l’amministrazione Biden avere un approccio comune con gli alleati. Se la Cina è senza dubbio la minaccia più grande a lungo termine, la Russia lo è a breve termine”, scrive il 27 gennaio l’Editorial Board del giornale della City a proposito del caso Navalny e dei rapporti Mosca-Bruxelles (e Berlino).

In questo giro di opinioni su un tema enorme come il cosa fare con la Cina, non si può allora sottovalutare quella di Jérôme Fenoglio, direttore del Monde che raramente si espone in firma. Il suo giornale partecipa alla discussione, come logico per un grande media come quello parigino: il 28 gennaio ha fatto uscire un editoriale non firmato contro le ambiguità della Germania riguardo Russia e Cina, sottolineando l’importanza dei valori europei davanti all’interesse economico. Ma quel che è più interessante è il pezzo che il 16 gennaio è uscito dalla penna di Fenoglio con cui si indicavano i vari problemi di una Cina che già nel 2028 potrebbe diventare la prima potenza globale per Pil.

Messe una dietro all’altra le questioni sollevate dal direttore francese spaventano: si parte dall’anno intero che ci è voluto prima che Pechino accettasse che l’Oms entrasse a Wuhan per un’indagine terza sul luogo dell’inizio della pandemia, si passa per gli scandalosi campi di rieducazione nello Xinjiang contro la minoranza uigura (dove si parla di attività per il controllo delle nascite), o ancora per Hong Kong, dove al desiderio di libertà (democrazia?) dei giovani locali il Partito/Stato ha risposto con la repressione e la stretta sulla cinesizzazione (in sfregio dell’accordo internazionale dietro all‘handover britannico), fino alle espulsioni dei giornalisti americani (tra le rarissime voci terze in Cina).

Che non sarà un accordo a cambiare la Cina, Pechino l’ha già dimostrato quando ha stracciato quello con l’Australia – ossia ha dimostrato di non credere che i patti stretti siano qualcosa di vincolante (altro che Wandel durch Handel). Camberra è da mesi sotto embargo – e l’Italia ci è già finita in mezzo – come forma di rappresaglia per essersi azzardata ad accusare Pechino di penetrazioni e interferenze di vario genere nel proprio paese, per essersi sbilanciata verso gli Usa (e l’asse del Quad), per aver chiesto un’indagine su Wuhan e la gestione iniziale della pandemia. Quest’ultimo è un argomento delicatissimo – anche alla luce di un fact-sheet sui sospetti attorno al laboratorio nella capitale dell’Hubei – su cui il governo cinese sta costruendo una contro-narrativa per passare da untore, a salvatore e abile risolutore.

“Le inchieste sul terreno, in Cina, sono sempre più necessarie e sempre più difficili. È indispensabile raccontare lo sviluppo folgorante delle città, le aspirazioni di un popolo, la sua complessa relazione con il Partito/Stato e con le libertà individuali, senza rinunciare a descrivere le repressione dei critici del regime”, scrive Fenoglio, garantendo che il suo giornale continuerà a farlo senza pregiudizi o concessioni, “senza voltare lo sguardo”. Messaggio diretto a Bruxelles.

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