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“Il tempo è adesso”. L’ha ripetuto più volte nel suo discorso d’apertura del summit dei leader sul clima Joe Biden. Nel suo discorso il presidente statunitense ha anche definito il cambiamento climatico la “crisi esistenziale del nostro tempo” che richiederà uno sforzo internazionale molto più ampio.

Ma la sua non è stata l’unica voce a levarsi da Washington nella giornata della Terra. Di cambiamento climatico, infatti, ha parlato anche Avril Haines, prima donna a guidare l’Intelligence statunitense. Il cambiamento climatico è “una minaccia urgente alla sicurezza nazionale”, “sia di breve sia di medio termine”, ha detto. Poi ha confermato quello che già dalle prime mosse del presidente e del suo inviato speciale per il clima, John Kerry, era apparso evidente: il cambiamento climatico sarà “al centro” della politica estera dell’amministrazione Biden, una netta inversione di tendenza rispetto a quanto fatto dal precedente inquilino della Casa Bianca, Donald Trump.

“Il cambiamento climatico non conosce confini, non rispetta i confini nazionali e non può essere affrontato da nessuna nazione da solo”, ha detto ancora Haines. “Dobbiamo lavorare insieme sulla sfida che ci attende”. Il riferimento ai confini non è casuale: infatti, la numero uno dell’intelligence statunitense ha spiegato che “temperature più calde potrebbero spingere decine di milioni di persone a migrare nei prossimi decenni”. Ma questo non è l’unico elemento di preoccupazione: “L’impatto non sarà distribuito in modo uniforme, colpendo. in modo sproporzionato le popolazioni povere e vulnerabili”, ha aggiunto dopo aver sottolineato la necessità di “infondere scienza e analisi relative al clima nel lavoro della comunità”.

Nel suo intervento Haines ha ricordato due documenti recentemente pubblicati dall’intelligence statunitense, l’Annual Threat Assessment e l’analisi Global Trends 2040. Nel primo si cita il cambiamento climatico come forza destabilizzante per molti fattori globali come la salute, l’alimentazione, le risorse idriche ma anche l’instabilità politica e le crisi umanitarie.

Mathew J. Burrows, che ha curato la pubblicazione del secondo documento dal 2005 al 2012 quando era al National Intelligence Council prima di unirsi al prestigioso think tank statunitense Atlantic Council, ha fatto le pulci all’edizione di quest’anno sottolineando alcune lacune. Ma nelle conclusioni scrive: “Qualunque siano i loro difetti, entrambi gli studi potrebbero servire ad alzare lo sguardo dei politici sulla crisi del giorno e pianificare un futuro migliore”. Perché, nota Burrows, “gli Stati Uniti non hanno più il margine di errore che avevano una volta”: “dobbiamo reinventarci” e “immaginare diversi scenari”, aggiunge.

Non c’è dubbio che i primi passi dell’intera amministrazione Biden sul clima siano quantomeno una dimostrazione di un approccio diametralmente opposto rispetto a quello della precedente amministrazione.

Già a novembre, intervistato da Formiche.net, Joshua Busby, professore associato dell’Università del Texas e membro a vita del Council on Foreign Relations, esperto di sicurezza climatica, commentava così la nomina di Kerry: “Già questo è qualcosa di nuovo”. E aggiungeva: il cambiamento climatico “rappresenta sia una minaccia importante alla sicurezza nazionale sia un’opportunità per gli Stati Uniti e il mondo in generale per costruire una nuova economia a basse emissioni di carbonio”.

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