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Matteo Salvini ha lanciato il nome di Gabriele Albertini come sfidante di Giuseppe Sala a sindaco di Milano. Ovviamente è una candidatura ancora tutta da verificare politicamente, in primo luogo con gli alleati del centrodestra (anche se difficilmente Forza Italia potrebbe dire no ad uomo eletto in passato nelle sue liste) ma forse anche con Albertini stesso.

E sicuramente, da un punto amministrativo si tratterebbe di una scelta vincente: ci si affiderebbe a un sindaco esperto, non quindi alle prime armi (non è tempo questo di sperimentazioni), e capace. La sua capacità Albertini l’ha dimostrata, in effetti, nei due mandati avuti come sindaco in anni, quelli che vanno dal 1997 al 2006, che hanno rappresentato una vera e propria rinascita e riqualificazione per la capitale meneghina e per il suo ruolo di grande capitale mondiale del fashion e dell’innovazione.

Ecco, io partirei proprio da questo elemento per dare un senso all’uscita di Salvini. Aver fatto il nome di Albertini ha infatti un valore altamente simbolico, indipendentemente da come andrà a finire: significa individuare sempre più nei ceti produttivi, e in particolare nel mondo dell’impresa, il riferimento culturale e politico della Lega, e lavorare a che viceversa gli stessi imprenditori comincino a vedere nel partito per “Salvini premier” il loro naturale interlocutore politico.

Quindi, per la Lega, non solo la buona amministrazione, fra l’altro già sperimentata in molte città grandi e piccole soprattutto del settentrione, ma anche un’idea di Paese che confida nei privati e non solo nella Stato, che fa propria l’idea di uno “sviluppo sostenibile” ma la declina in modo da allontanarla da ogni tentazione di “decrescita felice” o pauperistica.

Albertini, prima che un politico, è stato il proprietario di una delle nostre maggiori aziende del settore manifatturiero, ricoprendo importanti e numerose cariche nelle associazioni di categoria: un tipico esponente della borghesia liberale e cattolica milanese. Se a tutto ciò si aggiunge che su Roma Salvini insiste, fra le neghittosità se vogliamo ancora maggiori rispetto a Milano di Fratelli d’Italia, sul nome di un manager pubblico anche lui di lunga esperienza e anche lui espressione originariamente del partito di Silvio Berlusconi, e cioè Guido Bertolaso, il disegno salviniano sembra chiarirsi ulteriormente.

Non si tratta di rivolgersi all’ “usato sicuro” in attesa che si formi una classe dirigente, come pure qualcuno può pensare e in parte forse è anche vero. Si tratta piuttosto, credo io, di riprendere, riadattandolo ai nostri tempi, il discorso che fu di Forza Italia di una “rivoluzione liberale” (termine fra l’altro a chi scrive non simpatico), diventando appunto il riferimento dei ceti produttivi del Paese.

Ciò fa sì che la Lega vada ad occupare (anche) una vasta prateria che oggi il partito di Berlusconi, chiaramente in discesa perché legato alla personalità del suo fondatore, non è in grado di occupare pienamente. Un partito che, in prospettiva, potrebbe vedere il rapido esaurimento della sua funzione dividendosi fra un’ala sinistra, che approderebbe sulle sponde piddine o di Italia Viva, e un’ala destra che trasmigrerebbe di fatto sotto la leadership salviniana.

Vi spiego perché Salvini fa il nome di Albertini (e Bertolaso). La bussola di Ocone

Gabriele Albertini come sfidante di Giuseppe Sala a sindaco di Milano? Da un punto amministrativo si tratterebbe di una scelta vincente. Ma ha anche un valore fortemente simbolico indipendentemente da come andrà a finire. Lo spiega Ocone

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