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Ora che si è aperta – tardi e male – la crisi di governo nessuno può dire come se ne uscirà. Infatti, la situazione è sfuggita di mano ad ognuno dei registi che pensavano di condurre le cose da qualche parte, e dunque ogni previsione somiglia o a un vaniloquio o a un atto di supponenza. Eviterei l’uno e l’altro, per quanto possibile.

Il fatto è che con le dimissioni di Conte, date appunto tardi e male, siamo entrati nella terra di nessuno della politica. Quel luogo cioè da cui nessuno vien fuori dicendo e facendo le cose del giorno prima, e però da cui quasi nessuno al momento ha idea di come si possa uscire. Infatti ognuna delle soluzioni in campo appare minoritaria, nei numeri e nello spirito. Non c’è l’unità nazionale, perché non la si è mai seriamente coltivata. Non c’è una nuova maggioranza perché nessuno dei vagabondi a cui ci si è rivolti in tutti questi giorni ha intenzione di stabilirsi davvero in una dimora così pericolante. Non c’è la maggioranza Ursula perché è già  passato un anno e mezzo dall’incoronazione della sua eroina eponima. E non c’è la maggioranza di prima dato che in realtà essa era già in crisi prima che Conte e Renzi si azzuffassero. Si dirà che una di queste cose dovrà pur capitare, a scanso di elezioni. Ma sulla carta appaiono improbabili tutte quante, e questo dice molto.

Dunque, giriamo alla larga dalle profezie.

Semmai c’è un dato che andrebbe richiamato in queste ore. Ed è che, per uscire dal labirinto, serve tentare una mossa spiazzante. Chi avrà la fantasia di cambiare le sue parole d’ordine, i suoi schemi di gioco, le sue più prevedibili strategie, correrà il maggior rischio. Ma dimostrerà anche che la politica ha ancora un suo perché. E potrà perfino trarne un beneficio per sé e per i suoi cari. Chi invece si muoverà col pilota automatico, e insisterà nelle litanie degli ultimi giorni, si ritroverà progressivamente in fuori gioco. Potrà celebrare la virtù della propria coerenza (un po’ stolida, a dire il vero), ma finirà ai margini dello svolgimento della crisi.

Prima, sarebbero servite le virtù della prudenza e della circospezione. Del senso della misura, diciamo pure. Ora, al contrario, serve la capacità di cambiare sé stessi e il proprio copione, non più adatto alle nuove circostanze.

E qui il discorso cade inevitabilmente addosso al presidente del Consiglio. È lì infatti che si è formato il nodo più aggrovigliato della contesa politica. Ed è lì l’equivoco che andrebbe ora dissipato. Conte si è mosso in questi mesi, e perfino in questi giorni, come una sorta di re taumaturgo della sua stessa maggioranza. Un deus ex machina, forte di un credito che ai partiti della sua coalizione veniva negato. L’interessato ne ha tratto una conclusione fallace sulla sua forza di attrazione, sulla sua potenzialità elettorale e sulla sua stessa onda di popolarità – quella a lungo andare, e cioè quella che conta davvero.

E invece avrebbe dovuto proporsi con una postura più umile e paziente, cercando di cucire e rammendare il tessuto sbrindellato della sua coalizione ed evitando di gettare guanti di sfida che sono finiti poi mestamente nella polvere. Insomma, avrebbe dovuto evitare di sopravvalutare le sue possibilità di manovra e acconciarsi a fare l’amministratore di un condominio piuttosto confuso e rissoso. L’amministratore, appunto. Non il padrone. Capace di dialogare con pazienza con i suoi critici e perfino di attrarre i congiurati nella rete della sua mediazione.

Ha fatto l’opposto, e ora si trova a ballare nella tempesta che lui stesso ha suscitato. Uscirne non gli sarà facile. Ma a questo punto è chiaro che o il premier cambia registro o la politica cambierà il premier. Lo stesso premier con lo stesso registro, ormai, non può più essere.

O il premier cambia registro o la politica cambierà il premier. Scrive Follini

Con le dimissioni del presidente del Consiglio, date tardi e male, siamo entrati nella terra di nessuno della politica. Quel luogo cioè da cui nessuno vien fuori dicendo e facendo le cose del giorno prima, e però da cui quasi nessuno al momento ha idea di come si possa uscire, ma… Il nodo di Conte secondo Marco Follini

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