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In linea con l’orientamento della presidenza Biden d’innalzare le imposte sulle grandi società soprattutto per finanziare il suo mastodontico programma di infrastrutture, il segretario al Tesoro americano ha gettato la pietra nello stagno rilanciando platealmente una passata iniziativa diretta a uniformare tra Paesi i livelli minimi di tassazione sulle corporations.

Che si tratti proprio di uno stagno è evidente, giacché da molti anni si tenta invano di arrivare a un accordo tra i Paesi dell’Ocse su un’armonizzazione limitata del prelievo tributario minimo nell’intento ultimo di porre un argine alla concorrenza fiscale al ribasso tra Stati. Una concorrenza favorita dalla crescente globalizzazione delle economie e dalla libera circolazione dei capitali. Da ultimo, con la presidenza Trump il negoziato si era arenato per la decisione di partecipare alla competizione abbassando notevolmente il carico impositivo sulle società americane. Ma se non si è finora raggiunto un accordo, lo si deve alla diversità d’interesse di non pochi Paesi che per sostenere il loro sviluppo economico attraggono capitali, imprese e finanzieri offrendo trattamenti comparativamente vantaggiosi.

In effetti, dopo anni di discussioni in sede Ocse l’unica intesa multilaterale che si è raggiunta riguarda la collaborazione tra Paesi per scambi di informazioni sulle grandi multinazionali al fine di contenere il fenomeno dell’erosione delle basi imponibili attraverso lo spostamento dei profitti verso i Paesi a minore tassazione (Beps). Sul più intricato capitolo di allineare la tassazione minima delle grandi società si è ancora ben lontani da un qualsiasi accordo, e la complessità dei meccanismi impiegati per determinare il prelievo contribuisce a complicare il negoziato. Neanche tra i Paesi membri dell’Ue, che sono impegnati in un lungo processo di integrazione economica e finanziaria, si è finora riusciti nel tentativo, perché si contrappongono schieramenti con esigenze e sistemi fiscali contrastanti.

Alla luce di questa esperienza, quali possibilità vi sono attualmente di giungere finalmente a un’intesa, per quanto limitata possa essere? Contrariamente alle dichiarazioni ufficiali e ai commenti nei media non si tratta meramente di concordare un’aliquota minima di tassazione valida per tutti i Paesi partecipanti. Bisogna, invece, affrontare diversi aspetti della tassazione, superare gli ostacoli che si frappongono a un accordo e considerare i fabbisogni di finanza pubblica degli Stati.

Il panorama fiscale attuale presenta una rilevante diversità tra Paesi in diversi parametri importanti: in particolare, la delimitazione della base imponibile da sottoporre alla tassazione, i soggetti da tassare, il luogo del prelievo, le modalità, i tempi del pagamento, le esenzioni e i trattamenti preferenziali. Solo in ultima istanza interviene il problema delle aliquote minime comuni, che peraltro non appare di facile soluzione perché il livello che per alcuni Paesi appare come il minimo per altri si colloca al di sopra di quello attuale ed avrebbe conseguenze negative.

Trovare l’accordo solo sulle aliquote minime nominali, peraltro di solito diverse da quelle effettive, servirebbe a poco perché lascerebbe ancora molto spazio sia a pratiche concorrenziali da parte degli stati, sia alle multinazionali nel continuare a operare arbitraggi fiscali spostando capitali dove più conveniente.

Per armonizzare il perimetro della comune base imponibile, bisogna affrontare diverse scelte: tassare il fatturato, come alcuni Paesi tra cui l’Italia intendono fare per i giganti della digitalizzazione (con la digital tax), oppure tassare il valore aggiunto, che il frutto di diverse detrazioni dai ricavi? Le dimensioni delle due basi differiscono notevolmente. Anche i profitti sono misurati in maniera diversa, perché sono la risultante della deduzione di diverse voci di costo, quali ammortamenti, oneri per interessi, proventi tassati all’estero, contributi sociali a carico dell’impresa, operazioni con altre imprese infragruppo, perdite di gestione e altre voci straordinarie. Su ciascuna di queste sono possibili trattamenti differenti da parte di ogni stato col risultato di poter favorire o penalizzare la redditività del capitale investito ed avere effetti opposti sul gettito fiscale. Diversità sussistono tra gli stati anche nell’identificare il luogo della tassazione in quanto quest’ultimo per effetto della globalizzazione tende a differire da quello in cui il reddito è stato prodotto.

Ad esempio, un gigante del digitale come Google, prima dell’accordo col Fisco italiano nel 2017, poteva evitare la tassazione sui proventi generati nel nostro Paese invocando l’assenza di una stabile organizzazione nello stesso. Altra possibilità: se il fisco non ponesse dei limiti, le imprese potrebbero alterare la consistenza dei profitti manipolando i prezzi di trasferimento nelle operazioni di compravendita o finanziarie all’interno di un gruppo di società.

Anche sul perimetro delle imprese soggette a tassazione sono possibili trattamenti difformi. Negli Usa da quando la corporate tax non si applica alle imprese “pass-through” perché sono tassate meno, molte imprese preferiscono questo status e come conseguenza il loro contributo ai redditi di impresa negli anni è divenuto preponderante rispetto a quelli delle corporations. In tutti i Paesi le Pmi godono di benefici fiscali, ma la loro definizione è molto diversa: un’impresa con un numero di addetti tra 250 e 500 in America rientra tra le PMI, mentre in Europa tra le grandi.

Contano anche le esenzioni, perché in alcuni Stati si tassano voci di reddito che in altri sono esenti. In Paesi come la Svizzera e l’Irlanda le grandi corporations possono spuntare accordi ad hoc col fisco, in cui si concede un trattamento talmente preferenziale da attrarre l’impresa. Analogamente, disparità possono derivare da differenze nelle modalità e nei tempi del prelievo. Alcuni Paesi danno la possibilità di dilazionare negli anni il pagamento dei tributi, oppure applicano differenti sistemi di tassazione delle attività d’ impresa. Più in generale, ogni stato ha un proprio approccio nel distribuire il carico fiscale tra i vari stadi dell’attività e dei cespiti dell’impresa e anche su come ripartirlo tra imprese, consumatori ed investitori.

L’aliquota d’imposta è pertanto solo uno degli elementi su cui si svolge la concorrenza tra sistemi impositivi e non conta nemmeno il suo livello nominale fissato normativamente, ma quello effettivo. Gli Usa applicano un’aliquota nominale di corporate tax federale del 21% (del reddito), che è inferiore a quelle della maggioranza dei Paesi Ocse, ma che sommata a quelle dei governi sub-federali, sale al 25,8%, un livello più alto di quelli di 26 paesi Ocse su 37. Se si considera, invece, il tasso medio effettivo di corporate tax, il livello scende al 24,6%, che tuttavia supera quelli di 24 Paesi Ocse e della media Ocse (23,4% escludendo gli Usa). Innalzare il livello dell’aliquota nominale al 27%, come proposto da Biden al Congresso, indubbiamente deprimerebbe i rendimenti del capitale investito e renderebbe gli investimenti in Usa meno convenienti rispetto a quelli in altri Paesi. Ma questa conclusione è valida a parità degli altri fattori concorrenziali, condizione questa che non è affatto assicurata. Occorrerebbe un alto tasso di produttività della spesa pubblica per infrastrutture per compensare l’effetto di disincentivo.

In Europa, l’aliquota media effettiva di imposta societaria dell’Italia è misurata dall’Oecd al 20,7%, mentre l’Eurostat la colloca al 24,6% nel punto massimo, un livello al settimo posto tra i più alti dell’Uea 27 Paesi. Allo stesso posto si colloca in termini di imposta societaria nominale, pari al 27,8%. Se si raggiungesse un accordo internazionale sul livello minimo proposto dagli americani, il 21%, ben 12 paesi dell’Ue dovrebbero aumentare le loro aliquote nominali e per alcuni paesi, come l’Irlanda e la Bulgaria, in misura notevole. È realistico pensare che possano accettare un simile incremento? Potrebbero agire sugli altri fattori per mantenere il prelievo complessivo pressoché immutato rispetto alla situazione attuale, oppure potrebbero semplicemente rifiutare tale aumento. In questa ipotesi sarebbero da vedere quali sanzioni dovrebbero sopportare e da parte di quale autorità?

Per l’Italia il sollievo dato da un simile accordo sarebbe in ogni caso modesto per diverse ragioni. Attualmente l’imposta sulle società fornisce una componente modesta sia delle entrate da imposte dirette (13%), sia del gettito fiscale complessivo (4,5%) e si commisura al 2,5% del Pil. Sulle società gravano, peraltro, diverse altre imposte che ne portano il carico su livelli elevati in rapporto alla concorrenza internazionale.

Pensare poi che con un simile accordo internazionale l’Italia possa alleviare il suo problema dello squilibrio di finanza pubblica per via della minore concorrenza fiscale di altri Paesi è illusorio, perché la concorrenza agirebbe su altri fattori e, d’altra parte, la problematica magnitudine del debito pubblico non è risolvibile con nuovi e consistenti incrementi del prelievo sulle società.

Inoltre, attualmente innalzare il livello di tassazione complessiva sulle imprese rischierebbe di spegnere sul nascere il tentativo in corso di far ripartire la crescita economica su una traiettoria più alta e sostenibile negli anni.

Se gli americani insistessero sulla tassazione minima, bisognerebbe discutere di tutte le ramificazioni per prevenire ogni aggiramento. Sarebbe un compito al limite del fattibile, che ben pochi Paesi accetterebbero per la sua invasività. Un accordo sostanziale e completo sembra, quindi, poco probabile, ma non si può escludere qualche intesa su singoli punti, come l’applicazione della web tax sui redditi esteri delle compagnie del digitale.

Perché è illusoria la soglia comune d’imposta sulle società

Se gli americani insistessero sulla tassazione minima, bisognerebbe discutere di tutte le ramificazioni per prevenire ogni aggiramento. Un accordo sostanziale e completo sembra poco probabile, ma non si può escludere qualche intesa su singoli punti, come l’applicazione della web tax sui redditi esteri delle compagnie del digitale. L’analisi di Salvatore Zecchini

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