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Più che Joe Biden, il vero anti Donald Trump americano è Bill Gates, simbolo primordiale della rivoluzione digitale. Se l’ex presidente americano è l’emblema del populismo e del sovranismo, il fondatore di Microsoft è l’incarnazione della moderna globalizzazione economica. Il primo è idolatrato dall’America interna, dalla provincia più spaventata dalle innovazioni a raffica. Il secondo è apprezzato dall’America costiera (a Est e Ovest), dalle classi sociali più colte, aperte e dinamiche. Ma c’è un elemento che unisce questi due protagonisti del nostro tempo: entrambi sono divisivi, iper-amati dai loro ammiratori e arci-odiati dai loro detrattori.

Gates per lustri ha capeggiato l’hit parade degli uomini più ricchi del pianeta. E forse la capeggerebbe ancora adesso se egli non avesse conferito gran parte dei suoi averi alla fondazione intitolata a lui e alla sua ex moglie. In ogni caso il suo patrimonio ufficiale (non reale) è da capogiro, sui 120 miliardi di dollari. Un dato che lo rende inviso a tutti coloro che demonizzano la ricchezza per convinzioni ideologiche e che lo rende sospetto presso tutti quelli che vedono del marcio in ogni iniziativa economica e imprenditoriale.

A dispetto delle sue iniziative filantropiche, Gates viene raffigurato dai suoi denigratori come il regista di operazioni lucrose di dubbia moralità. Anche un altro miliardario, il suo nome è George Soros, attira su di sé un fulmine dietro l’altro, in molti lo raffigurano come il burattinaio della finanza più spietata, l’architetto di un fantomatico mondialismo, il manovratore nascosto dei conflitti nel globo e tanto altro ancora. Manca solo, per Soros, la chiamata in correità per terremoti e uragani, poi l’elenco delle imputazioni sarebbe al completo.

Ma se le requisitorie anti-Soros sono più devastanti di un pugno in faccia, le rimostranze anti-Gates sono più velenose del morso di una vipera. Basti pensare alle insinuazioni su Gates che hanno caratterizzato la stagione dei vaccini negli anni del Covid. Il festival del cospirazionismo. Su Gates si è scritto e detto di tutto, in primis che ha speculato alla grande sul siero anti-contagio e che ha accresciuto senza pudore i forzieri delle Big Pharma, dei colossi della farmaceutica. Allusioni. Insinuazioni. Dietrologie. Fantasie. Del resto, come già rilevava il grande economista austriaco Joseph A. Schumpeter (1883-1950), è dura a morire la deformazione favolistica che accompagna la genesi e la storia delle svolte imprenditoriali.

Stavolta a tirare nuovamente Gates nel recinto degli indiziati per giochi pericolosi ha provveduto l’Intelligenza Artificiale, angelo per alcuni, demonio per molti altri. I mega-scettici lasciano intendere che se c’è lui, Gates, dietro la sfida tecnologica più decisiva del ventunesimo secolo di sicuro, vuol dire che bisogna stare in guardia, che bisogna fare muro o che bisogna fare sùbito opposizione, a prescindere, perché quasi certamente si profila una colossale fregatura per la stragrande maggioranza degli esseri umani.

Ora. Che l’Intelligenza Artificiale non sia un’invenzione di terz’ordine, non ci piove; che sia, invece, una novità forse più dirompente della scoperta dell’America e dell’avvento dell’elettricità, è assodato. Ma solo una società affetta da misoneismo endemico, da refrattarietà all’innovazione, da ostilità alla tecnologia, può liquidare con un’alzata di spalle la nuova rivoluzione in atto rimpiangendo una purezza passata, le cui virtù egualitarie appaiono più inafferrabili di una biscia. Semmai la materia collegata all’Intelligenza Artificiale andrebbe regolata ricorrendo alla migliore intelligenza umana, non già buttata preventivamente nel cestino come un foglio pieno di scarabocchi. Sì, perché un Paese smanioso di crescere senza gli investimenti ininterrotti nelle nuove tecnologie, è un Paese destinato a decrescere, ad accontentarsi di settori desueti, poco produttivi e poco redditizi. Altro che reddito o salario minimo. Un Paese che premiasse le attività a modesta innovazione non potrebbe permettersi paghe soddisfacenti per il grosso della forza lavoro inquadrata, figuriamoci per quelli più ai margini, per gli addetti a mansioni poco qualificate. Solo l’economia sommersa avrebbe da guadagnare da un Paese statico, indifferente nei riguardi dell’innovismo continuo che contraddistingue le società aperte.

Non sappiano cosa si siano detti Meloni e il creatore di Microsoft nell’incontro dell’altro ieri a Palazzo Chigi. Non sappiamo neppure se la conversazione sia stata monopolizzata dall’argomento dell’Intelligenza Artificiale. Né, a maggior ragione, sappiamo se Gates abbia illustrato una specie di partnership, in campo tecnologico, alla leader del Paese che ospiterà e coordinerà il prossimo summit dei leader G7 (a Borgo Egnazia, in Puglia). Sappiamo solo però che l’Intelligenza Artificiale rappresenta una sfida ineludibile, i cui effetti vanno esaminati e valutati innanzitutto con quelli che sanno e se ne intendono di più. E l’ospite americano ricevuto da Meloni è l’archetipo di questa categoria, il suo esponente più informato.

L’Italia e il Sud in particolare hanno bisogno come il pane di risalire nella nuova scala tecnologica. Non possono permettersi di snobbare i Gates e i suoi equipollenti. Non possono affrontare con chiusure ideologiche, o con spirito provinciale, l’ultimo atto di una rivoluzione permanente iniziata un paio di secoli addietro con l’avvento della società industriale dopo secoli di Pil stazionario, e mai aumentato, per colpa del feudalesimo. Grazie alle tecnologie di ultima generazione il Mezzogiorno potrebbe accorciare il divario col Nord senza particolari affanni, e soprattutto abbreviando i tempi, dal momento che dalle sue università fuoriescono giovani pronti a misurarsi col nuovo.

Morale. Guai a restare prigionieri di una logica strapaesana o di una mentalità luddistica, nella fallace convinzione che il passato sia più rassicurante del futuro. Se un signore come Gates avesse proposte da suggerire o idee da illustrare, sarebbe sbagliato e autolesionistico sbattergli la porta in faccia. Meglio andare a vedere le sue carte, i suoi progetti e ragionare. E poi si vede: cosa convince e cosa non convince. Del resto, come insegnava Luigi Einaudi (1874-1961) bisogna conoscere prima di deliberare.

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