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Un tempo la chiamavano cultura di governo. È quella postura, e quello stile, che avevano caratterizzato per quasi 50 anni la cosiddetta prima repubblica con il ruolo politico decisivo e determinante della Democrazia Cristiana.

Cultura di governo che, però, coincideva con l’altro pilastro che storicamente caratterizza le società democratiche e plurali: ovvero, la prassi e la cultura riformista.

E quindi, cultura di governo, cultura riformista e postura istituzionale.

Sono questi i tasselli fondamentali che dovrebbero sempre accompagnare i partiti che coltivano l’ambizione di guidare un paese.

Ora, e di fronte ai nuovi trend e alle nuove dinamiche della politica italiana, diventa cruciale capire chi, oggi, e concretamente, interpreta e si fa carico di quelle costanti che continuano ad essere decisive per la qualità della nostra democrazia e per lo stesso governo di una società composita e articolata come quella italiana.

Detto con altre parole, chi oggi è in grado nella cittadella politica italiana di rappresentare autenticamente un riformismo di governo e, al contempo, una postura istituzionale capace di battere alla radice le derive e i disvalori del radicalismo, dell’estremismo, del massimalismo e, soprattutto, del populismo.

Perché si tratta di derive e di disvalori che erano, sono e restano i nemici irriducibili della democrazia da un lato e dalla cultura di governo dall’altro.

Diventa quindi importante, e di conseguenza, capire dove oggi allignano maggiormente questi disvalori e chi, al contempo, è più attrezzato per declinare un vero e credibile riformismo di governo.

E, al di là di ogni polemica o pregiudizio politico e, men che meno di natura personale, è indubbio, nonché oggettivo, che oggi il cosiddetto “campo largo” è il meno attrezzato a declinare una ricetta autenticamente e credibilmente riformista.

È appena sufficiente osservare il profilo politico e culturale dei tre principali partiti per rendersene conto.

E cioè, il profilo radicale e massimalista del Pd della Schelin, il profilo estremista ed ideologico del trio Fratoianni/Bonelli/ Salis e il profilo populista e demagogico dei 5 stelle di Conte per arrivare alla conclusione che da quelle parti il riformismo è sostanzialmente un corpo estraneo rispetto al progetto politico complessivo della coalizione di sinistra e progressista.

E la conferma arriva quasi quotidianamente, soprattutto nelle materie dove è richiesta, appunto, una cifra riformista e di governo.

Penso, nello specifico, alla politica estera e alle scelte in materia di politica economico e sociale.

Altroché il vecchio e tradizionale centro sinistra di Marini, Rutelli, Veltroni, D’Alema e via discorrendo.

Sul versante del centro destra, invece, l’unica forza politica distinta e distante da qualsiasi anelito riformista e di governo resta la Lega. Ma quella di Salvini, però.

Perché a livello locale, a cominciare dal governo delle varie Regioni del Nord, la Lega dimostra capacità di governo da un lato e un genuino e credibile riformismo dall’altro.

Ma sul versante nazionale era, e resta, misteriosamente un partito con un forte e marcato accento populista e demagogico.

Ecco perché, e in vista delle prossime elezioni politiche nazionali e dopo le varie consultazioni regionali, saranno ancora una volta la cultura di governo e la cultura riformista a fare la differenza.

E a dirci chi è più titolato, e soprattutto chi è più affidabile, per guidare il nostro paese in vista delle nuove e sempre più inedite e drammatiche sfide.

La vera sfida è su chi è riformista. Il commento di Merlo

Cultura di governo, cultura riformista e postura istituzionale. Sono questi i tasselli fondamentali che dovrebbero sempre accompagnare i partiti che coltivano l’ambizione di guidare un paese, ma a sinistra in particolare (oltre che nella Lega a livello nazionale) queste componenti mancano. La riflessione di Giorgio Merlo

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