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Per un momento anche la Cina era salita sul carro delle stablecoin. D’altronde, con gli Stati Uniti ormai prossimi ad aprire le porte della finanza tradizionale alle monete di ultima generazione (e con una ragionevole prospettiva di farlo anche con le criptomonete, che a differenza delle stablecoin non sono ancorate alla valuta sovrana), il Dragone non poteva restarsene con le mani in mano. Tanto è vero che già lo scorso mese di luglio Pechino aveva acconsentito ad alcune banche di Hong Kong di mettere a terra un primo progetto pilota, con alcune emissioni di prova. Ma negli ultimi mesi, qualcosa si deve essere inceppato.

Con una mossa che ha il sapore della dichiarazione di principio, Pechino ha improvvisamente fatto retromarcia, bloccando lo sviluppo di stablecoin, stoppando di fatto i progetti avviati da giganti tech come Alibaba, JD.com e Ant Group in collaborazione con partner di Hong Kong. L’indicazione è chiara: l’innovazione digitale nel campo della moneta non solo deve essere centralizzata e controllata, ma deve servire a rafforzare il primato dello yuan digitale, non a indebolirlo con versioni parallele emesse da soggetti privati. Tradotto, con ogni probabilità qualcuno a Pechino si deve essere messo paura del fatto che, forti delle loro stablecoin, le big tech cinesi potessero acquisire ulteriore, e forse troppo, slancio. Per non dire indipendenza.

Di qui l’altolà. Le autorità cinesi avrebbero fatto sapere che nessuna stablecoin ancorata al renminbi potrà essere lanciata senza un mandato statale diretto.
In altre parole, lo spazio per le big tech nel mondo delle valute digitali si restringe ancora di più. A pesare è soprattutto la preoccupazione per la sovranità valutaria. La leadership di Xi Jinping ritiene, d’altronde, che la diffusione incontrollata di stablecoin private potrebbe compromettere la stabilità finanziaria interna e creare circuiti monetari alternativi a quelli ufficiali, in grado di eludere controlli sui capitali o politiche monetarie.

La prova è nel fatto che lo yuan digitale, valuta, quella sì, sovrana al 100% perché semplicemente la versione digitale della moneta cinese, continua a conquistare spazi di mercato. Il nuovo asset, lanciato in forma sperimentale nel 2019, è oggi operativo in 23 aree metropolitane, tra cui Shenzhen, Shanghai e Pechino. L’obiettivo, quasi del tutto politico, è duplice: ridurre la dipendenza dal dollaro nel commercio internazionale e spingere l’internazionalizzazione del renminbi attraverso una piattaforma digitale controllata direttamente dalla banca centrale.

E chissà che non c’entri, anche se non è chiaro come, l’improvvisa gelata del Pil cinese. La Cina, infatti, ha segnato nel terzo trimestre un Pil in rialzo del 4,8% annuo, in rallentamento rispetto al +5,2% di aprile-giugno a causa delle tensioni commerciali con gli Usa, con la serie di dazi in parte congelati. Nei primi nove mesi dell’anno, in base ai dati diffusi dall’Ufficio nazionale di statistica, l’economia mandarina è cresciuta del 5,2%, mantenendosi in linea con il target dell’intero 2025 di un Pil in aumento di circa il 5%. Circa.

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