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Nel lessico sportivo si chiamerebbe tridente: tre punte, tre giocatori con caratteristiche diverse, uniti verso lo stesso obiettivo.

Nella risposta italiana ai dazi di Trump, le maglie le indossano Giorgetti, Tajani e Meloni: tre figure che, nel passaggio più complesso della politica commerciale transatlantica degli ultimi anni, hanno rappresentato l’articolazione istituzionale della risposta italiana da un punto di vista tecnico, diplomatico e soprattutto politico.

La crisi dei dazi imposti da Trump – prima minacciati, poi imposti, poi (parzialmente) congelati, poi contrattati – ha avuto una dimensione europea, certo. Ma per l’Italia, Paese con un forte export verso gli Stati Uniti, il potenziale impatto è stato immediatamente nazionale. E il governo ha risposto distribuendo la comunicazione su tre piani distinti, più paralleli che convergenti.

Il primo a esporsi, in modo netto, è stato Giancarlo Giorgetti. La sua cifra è stata tecnica, senza concessioni alle semplificazioni politiche. In più occasioni, da Cernobbio alle interlocuzioni informali, ha fissato la soglia del 10% come limite massimo tollerabile. Un dazio oltre quella soglia, secondo il ministro dell’Economia, rischia di trasformarsi in una frizione strutturale sull’export italiano, in particolare nei settori ad alta intensità di capitale.

Giorgetti ha mantenuto il suo tono asciutto anche quando la discussione sembrava deragliare sul piano politico. Non ha drammatizzato, ma ha chiarito. Nessuna minaccia, nessun allarme. Solo un fatto: oltre il 10% il sistema non regge.

Un posizionamento coerente con la sua storia politica e tecnica, ma anche una postura che, nel contesto di una crisi a guida comunicativa, è rimasta confinata dentro i perimetri dell’ascolto ministeriale. C’è stata autorevolezza, ma non centralità narrativa. E infatti l’ultimo (ultimo?) accordo sposta la soglia al 15%, e la narrazione governativa prevalente è: “Non è una catastrofe”. Chissà cosa ne pensa Giorgetti.

Contemporaneamente, Antonio Tajani ha fatto ciò che ci si aspetta da un ministro degli Esteri (o forse, come dice lui, da un ministro degli Esteri “sfigato”): ha presidiato il fronte esterno con uno stile multilivello e, mentre i dazi venivano discussi a Bruxelles, si spostava tra Roma, Washington e le emittenti americane, ricordando che ci sono 300.000 posti di lavoro negli Stati Uniti garantiti da imprese italiane.
Tajani ha anche provato a fare diplomazia nella narrazione, scegliendo un linguaggio costruttivo (“dialogo”, “win win”, “partenariato”) ed evitando qualsiasi scivolamento polemico. Ha difeso l’approccio comunitario, ma ha anche sottolineato l’importanza del rapporto bilaterale con Washington. Ha ricordato quanto l’Italia sia strategica per gli Usa, non solo nei flussi commerciali, ma nella stabilità euro-mediterranea.
Il suo contributo ha avuto il merito di costruire ponti, come si suol dire, ma come spesso accade nella politica estera l’impatto comunicativo interno è stato marginale. Nessun messaggio forte, nessun frame dominante, solo continuità. E forse anche un po’ di irrilevanza mediatica.

D’altronde, le attenzioni sono tutte sulle reazioni di Meloni.

Il profilo pubblicato da Time pochi giorni fa restituisce un’immagine precisa della presidente del Consiglio: determinata, preparata, capace di muoversi con agio nei vertici internazionali più esigenti. La visita alla Casa Bianca nell’aprile 2025 viene descritta come un momento di gestione calibrata, in cui Meloni mostra disciplina, conoscenza dei dossier e una relazione diretta ma non subalterna con Trump. Non a caso, nel racconto dei suoi interlocutori americani, Meloni emerge come “straordinariamente diretta” e affidabile.

Ad oggi la posizione di Meloni è la più delicata, ma sul piano interno l’equilibrio (o il controcanto) tra queste tre figure ha avuto un merito: qualche dissonanza, ma nessuna frattura o forzatura. Meloni ne esce bene, e probabilmente la sua linea ricalcherà quella battuta fino a ora: bene l’accordo, lo sapremo gestire, forniremo tutele per le imprese.

A conti fatti, il messaggio del governo è stato coerente, anche nelle sue sfumature. Ma proprio per questo, è mancato un colpo di reni che rassicurasse di fronte alle esuberanze trumpiane e all’incertezza che ne è seguita.

Nella comunicazione politica, soprattutto in scenari internazionali, non basta parlare: serve comporre. Serve costruire una voce comune che non sia solo la somma di ruoli istituzionali, ma anche una visione politica. Il governo italiano, su questo dossier, ha parlato, ma non ha guidato il discorso.

Il tridente ha funzionato come presidio, non come iniziativa: il governo italiano ha gestito il rischio commerciale con sobrietà, ha evitato derive polemiche e ha mantenuto una postura dialogante. Ma, nel medio periodo, questa strategia funzionerà solo se saprà tradursi in risultati percepibili per il sistema produttivo. E se, nei prossimi dossier, le tre voci sapranno farsi coro.

Tre voci, una strategia? Il tridente italiano in risposta ai dazi di Trump analizzati da Carone

Giorgetti, Tajani e Meloni: tre figure che, nel passaggio più complesso della politica commerciale transatlantica degli ultimi anni, hanno rappresentato l’articolazione istituzionale della risposta italiana da un punto di vista tecnico, diplomatico e soprattutto politico. Però il tridente ha funzionato come presidio, non come iniziativa. L’analisi di Martina Carone

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