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E alla fine accordo fu. Ma la domanda è: quale il prezzo da pagare per le imprese europee e italiane? Perché ci sarà stato anche un prezzo politico a monte dell’accordo tra Stati Uniti e Cina sui dazi, ma di sicuro ce ne è uno anche economico. Premessa. Dopo quasi quattro mesi di tira e molla, fatti di escalation (fino alla minaccia di Trump di imporre dazi al 50% a fine maggio) e di pause (come quella al 10% che è durata fino a oggi), di accordi mancati e lettere minatorie, è arrivata dalla Scozia, tra una partita di golf e l’altra, l’intesa tra Donald Trump e Ursula von der Leyen.

In attesa di leggere le carte, secondo l’intesa firmata ieri, gli Stati Uniti introdurranno un dazio reciproco del 15% ma che, a conti fatti, ha ben poco di reciproco. L’Unione europea, che finora applicava un dazio medio dello 0,9% sui beni americani, ha deciso di non reagire con misure equivalenti, lasciando in sospeso entrambi gli strumenti di risposta: i contro-dazi su 93 miliardi di euro di beni statunitensi e i dazi sui servizi forniti in Europa da aziende americane. A livello settoriale, restano in vigore i dazi del 25% sulle auto europee e quelli del 50% su acciaio e alluminio. Nel dettaglio, secondo i calcoli dell’Ispi, dazi al 15% colpiscono in particolare i paesi per cui l’export verso gli Stati Uniti ha un peso economico rilevante, come Germania e Italia. È quindi lecito aspettarsi un impatto economico maggiore su Berlino e Roma. In uno scenario con dazi al 15%, il Pil tedesco rallenterebbe di quasi lo 0,3%, quello italiano di quasi lo 0,2%, mentre l’effetto sull’economia francese sarebbe più contenuto, intorno allo 0,1%.

Ora, i problemi per gli esportatori europei non si esauriscono con i dazi. A pesare ulteriormente sui prodotti Ue venduti negli Stati Uniti, spiega l’Ispi, “contribuisce anche l’andamento del tasso di cambio euro-dollaro. Dall’insediamento di Trump (20 gennaio) a oggi, il dollaro ha perso il 13% del suo valore rispetto all’euro. Gli osservatori attribuiscono questo calo alla perdita di credibilità della valuta statunitense, alimentata dall’incertezza generata dai dazi stessi e dall’aumento della spesa pubblica legata al “One Big Beautiful Bill Act”. Il fatto che gli Stati Uniti vengano percepiti sempre meno come un rifugio sicuro è confermato non solo dalla perdita della tripla A da parte delle tre principali agenzie di rating, ma anche dall’aumento degli interessi sui titoli del Tesoro americano”.

Al di là delle cause, per gli esportatori il deprezzamento del dollaro si traduce in una sorta di “dazio aggiuntivo”: devono scegliere tra mantenere invariati i prezzi in dollari abbassando quelli in euro (e dunque i propri ricavi), o rischiare di perdere competitività. Per esempio, oggi l’onere medio per un esportatore italiano non si limita al dazio medio dell’8% che gli Stati Uniti applicavano a maggio sui beni italiani, ma arriva a un impatto complessivo del 21%. E comunque, mai dimenticare un aspetto.

“Il dazio medio applicato dagli Stati Uniti alle merci europee, che prima di aprile superava di poco l’1%, è oggi più di dieci volte superiore. Questo permetterà a Trump di aumentare significativamente le entrate fiscali statunitensi, che potrebbero passare da 7 a 91 miliardi di dollari l’anno solo grazie al dazio europeo”, mette in calce l’Ispi. Una cosa, tuttavia, è certa: un mondo in cui gli Stati Uniti danno il via a una guerra commerciale è anche, purtroppo, un mondo in cui negoziare accordi con i paesi colpiti da quella guerra diventa molto più difficile.

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