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Il nostro Paese ha bisogno di cultura. Ne ha un bisogno enorme. Ma l’insieme delle attività che vengono poste in essere, oggi, rischiano di essere semplicemente un costo che gran parte dei cittadini italiani non possono più permettersi.

Può apparire l’ennesima provocazione ascrivibile ad una tradizione di spicciolo opinionismo, ma la sostenibilità della cultura è un elemento che invece richiede una riflessione lucida, e per certi versi disamorata.

Semplifichiamo: il nostro Paese vive difficoltà organizzative, legislative, ed economiche in quasi tutti i principali settori-base della nostra convivenza civile. Difficoltà sono evidenti nel settore sanitario. Nella formazione. Nelle infrastrutture. Nell’urbanistica. Difficoltà sono evidenti nel settore pensionistico, nella crescita industriale, nella demografia.

È in questo scenario che si inscrive la gestione del patrimonio storico, artistico e culturale (materiale ed immateriale) del nostro Paese.

Un patrimonio enorme, che impone una responsabilità nei confronti dell’intera umanità: preservare tracce storiche che appartengono a tutti gli esseri umani presenti sul pianeta, e a tutti gli individui che abiteranno questo pianeta nel futuro.

Questa responsabilità va compresa bene: tutelare la cultura e preservare la cultura per l’attuale e futuro genere umano è un’operazione che non può essere “concentrata” su alcuni monumenti-icona. Il Colosseo vale ben poco senza Roma. Sarebbe come voler tutelare e preservare la storia dell’informatica del XXI secolo mantenendo la memoria del solo iPhone, senza tener conto di Google, o di ChatGPT o di tutti i fallimenti che si sono avvicendati negli anni. Sarebbe, ancora, come conservare tutte le proprie fotografie, ma eliminando tutte le persone e gli ambienti in cui tale fotografie sono state scattate. Foto di noi sorridenti, foto di noi arrabbiati, eleganti, sportivi, ginnici o stanchi. Tutte su fondo bianco.

Tutelare il nostro Patrimonio vuol dunque dire tutelare e preservare tutte quelle espressioni che permettono di trasformare una foto scontornata della nostra cultura in una visione complessa, ben sapendo che in questa narrazione millenaria, i dettagli “minori” sono talvolta essenziali.

Un onere enorme per un Paese che ha difficoltà a garantire tempi utili per erogare, in modalità pubblica, prestazioni sanitarie ai cittadini, pur essendo sempre più elevata la percentuale di persone che si rivolge alle prestazioni a pagamento per poter accedere a tali servizi.

Malgrado il tema sia estremamente controverso, è indubbio che la presenza di un settore privato in grado di affiancare il settore pubblico nell’erogazione di alcune attività abbia in ogni caso generato dei miglioramenti generali. Probabilmente non è “corretto”, perché il ricorso ad un medico al di fuori del circuito pubblico implica un duplice pagamento per quel servizio, ma al di là di tali ragionamenti, la possibilità di poter accedere ad una visita entro un tempo medio di 10 giorni, contro magari un tempio medio di 40 (o di 60 – come per le visite oncologiche senza livello di priorità) ha probabilmente salvato molte vite.

Allo stesso modo: la presenza di asili nido privati, a fronte della scarsità o dell’assenza di quelli pubblici, ha giocato un ruolo fondamentale per la nostra collettività.

Pur essendo ben evidente che in nessuno dei due casi citati l’Italia rappresenti un’isola felice a livello internazionale, è comunque indubbio che una “diversificazione” delle attività tra pubblico e privato ha permesso quantomeno di garantire alcuni servizi minimi.

Al contempo, sanità e formazione hanno rappresentato, per quei privati che hanno investito i propri capitali in tali comparti, una importante fonte di reddito. Anche qui, probabilmente non è “corretto”. Ma la promessa di guadagni ha consentito l’ingresso di numerosi operatori economici, e tali ingressi hanno creato dei “mercati”, e in tali mercati, la leva della concorrenza ha portato ad una diversificazione dei servizi che si è tradotta anche in una diversificazione dei prezzi. Tra gli asili nido privati, quindi, si può scegliere sulla base delle proprie disponibilità economiche e sulla base delle aspettative di lavoro. Corretto? Forse no. Ma questo elemento “non corretto” consente a chi ha un impiego che prevede un reddito sotto la media di non dover rinunciare al proprio lavoro, condizione che sarebbe inevitabile se l’asilo costasse (in media) più della retribuzione oraria percepita.

Abbiamo accettato, negli anni, che il settore privato entrasse e lucrasse in segmenti produttivi essenziali alla nostra sopravvivenza. Invece abbiamo difficoltà ad accettare il suo pieno ingresso in un settore, come quello culturale, dove probabilmente sarebbe anche “corretto” entrasse.

Qualche anno fa, ad esempio, si era soliti contrapporre tutela a valorizzazione. Nel tempo si è capito che sotto il profilo “culturale” tale contrapposizione non avesse alcuna base se non quella ideologica.

Tale contrapposizione potrebbe però aver senso sotto il profilo gestionale, e soprattutto in termini di gestione dei flussi di ricavo. Corretto è infatti che il settore pubblico si occupi della tutela del patrimonio, mentre la produzione di nuova cultura, o la valorizzazione stessa del patrimonio, dovrebbe essere invece attribuita al privato.

Questo liberebbe il pubblico di una serie di “costi” sia a livello centrale che a livello territoriale, destinando così la parte del gettito fiscale dei cittadini alle sole attività di tutela, e restituendo, sotto forma di “crediti monetari nei confronti di organizzatori di spettacoli”, quella parte di spesa aggregata che è oggi invece destinata a garantire “la fruizione pubblica della cultura”. Si potrebbe così decidere di investire tutti tali risparmi nella sagra enogastronomica del proprio comune, o invece destinare tali crediti ad una visita agli Uffizi.

Parallelamente, ai soggetti gestori (i cosiddetti concessionari), spetterebbero i ricavi dei biglietti, parte dei quali dovrebbero tuttavia essere reinvestiti in azioni di ricerca e di produzione, con un piano culturale che dovrebbe essere approvato da figure direttoriali e scientifiche di pregio.

Ciò comporterebbe un incremento della ricchezza percepita da tali soggetti, a fronte della quale tuttavia si potrebbe imputare loro un impegno di natura culturale (come il reinvestimento di parte dei ricavi anche nelle attività di valorizzazione e gestione di luoghi della cultura meno frequentati).

Una tale divisione “gestionale”, potrebbe riversare nel settore privato una mole di denaro e di liquidità che attualmente è invece destinata ad affiancare i fondi che il settore pubblico già riceve dai contribuenti.

Ciò che dovrebbe far riflettere di tale prospettiva è l’immediata sensazione di disagio. La certezza istintiva che ci porta a ritenere che tale visione rappresenti un’idea in qualche modo sbagliata. L’idea che un soggetto privato debba “guadagnare” in tutto o in parte i ricavi derivanti dalla vendita del Colosseo, pare immediatamente antidemocratica, liberale e assurda.

Eppure, l’esatto contrario non lo pare affatto. Vale a dire, non pare affatto antidemocratica la circostanza per cui, lo Stato, possessore di beni, affidando in concessione la gestione di tutti i servizi al pubblico di un determinato monumento (che sia il Colosseo o che sia un edificio storico del ‘300), debba percepire una percentuale ben più elevata di quella percepita dal privato. Che è come dire che risulta del tutto naturale immaginare che il proprietario di un bene, per il solo fatto di esser proprietario, benefici dalla valorizzazione di tale bene una somma ben più elevata di quanto percepisca chi la valorizzazione effettivamente la realizza.

Non si tratta dunque di proporre realisticamente un ribaltamento delle condizioni in essere. Si tratta piuttosto di iniziare a riflettere su quanto viene dato per scontato nel settore culturale. Si tratta di indagare l’attualità delle premesse che sono alla base dell’attuale organizzazione.

Si tratta di intercettare una serie di “riflessioni” che portino in ogni caso ad incrementare il livello di “fatturato” della cultura, perché in estrema sintesi l’Italia si trova di fronte ad un’evidenza che non può essere trascurata: il settore pubblico non dispone di sufficienti risorse per far fronte a tutte le attività (tutela, conservazione, studio, ricerca, comunicazione, promozione, produzione, creazione di servizi secondari, e via dicendo) che riguardano la cultura; e al contempo la dimensione “pubblica” della cultura è frequente intervenga anche in settori che potrebbero essere demandati al “mercato”, andando a ridurre, più che ad incrementare, il livello di ricchezza che invece potrebbe essere garantito dal settore, riducendo quindi l’interesse da parte degli investitori esterni.

Se qualcosa, in questo stato dei fatti, non viene a modificarsi, è del tutto chiaro che più tempo passa e più la condizione peggiora.

La cultura deve generare ricchezza. Oppure è meglio puntare altrove

La gestione del patrimonio storico, artistico e culturale impone una responsabilità nei confronti dell’intera umanità. La sostenibilità della cultura richiede una riflessione lucida, disamorata. L’opinione di Stefano Monti

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