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Il decennio che si apre nel segno della trasformazione dei rapporti globali innescata dalla pandemia è anche il momento per una riflessione, un punto di assetto, del decennio appena chiuso e che proprio nella ridefinizione degli equilibri nel conteso Sud del mondo, nell’arco di crisi che Zbigniew Brzezinski disegnava tra Marocco e subcontinente indiano – arco che è sempre rimasto aperto, e che non è mai stato “chiuso” in una formula bi- o multi-polare di controllo – trovava la sua fondamentale chiave di lettura.

Libia, Siria, Tunisia, Egitto nel 2011-2012 e poi, con un avvitamento pericoloso, Yemen, venivano trascinati nel vortice e in un certo modo risucchiati da pressioni di cui Turchia e potenze regionali del Golfo – spesso dotate di pesante artiglieria mediatica, più che di idee-guida in grado di “fare egemonia” – sono e risultano ancora in ultima analisi i terminali, sorta di “ultimo miglio” di un sistema-mondo che ha conosciuto, nel decennio, una sua riarticolazione attorno a pochi, fondamentali poli.

Il primo è e resta l’Occidente atlantico, il quale si è a tutti gli effetti compattato sotto l’effetto di crisi che hanno ridotto la dialettica Usa-Ue, anche a rischio di un certo immobilismo (in Ucraina e Siria), e non ultimo per il disinnesco della bomba ad “alta carica ideologica” del Ttip, per una scelta della precedente amministrazione che appare, a distanza di qualche anno, sempre meno un capriccio isolazionista e sempre più consustanziale agli interessi centrali della potenza americana.

L’altro polo fondamentale, la Cina, è entrata sì a far parte della “comunità internazionale” come “centro” nel sistema-mondo, ma senza poter contare su alleanze organiche fondate su un comune sentire, come una tradizione diplomatica, un soft-power condiviso e accettato, una percezione di non-interferenza (se non di benevola influenza), e questo per l’inaggirabile (almeno per il regime attuale) doppia ipoteca geopolitica di Taiwan e del Tibet. Mentre il “centro” si muove su due poli in una bi-egemonia Cina-Occidente, più o meno in armonia nella misura in cui le spinte revisioniste strategiche di Pechino sono bloccate dalla citata doppia ipoteca, la “periferia” africana emerge come il banco di prova del fallimento, conclamato nella pandemia, del modello concentrazionista urbano e della necessità di un vero sviluppo sostenibile, in termini strategici-organici e non di mero adattamento alle esigenze del centro.

I casi di Sudafrica e Nigeria, entrambe incluse in previsioni geopolitiche di sicura ascesa all’inizio del decennio come membri rispettivamente del “Brics” e del più infausto “Mint” (Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia) sono paradigmatici dell’impossibilità di organizzare il continente attorno ad una grande potenza egemonica regionale.

Passando al Corno d’Africa, secondo Cristopher Clapham del Center of African Studies, “l’Etiopia è stata quasi costantemente utilizzata come il prisma attraverso cui le potenze esterne hanno guardato alla regione”. Lo è stata per Mosca, quando tentò l’ascesa nell’Oceano Indiano negli anni Sessanta-Settanta, per gli Stati Uniti nei primi anni Duemila come provider di sicurezza militare in funzione anti-terrorismo e per congelare Eritrea e Sudan, lo è oggi per la Cina come chiave di volta per accedere all’economia più prospera della regione.

Tuttavia, ciò ha suscitato “comprensibile scontento o perfino risentimento negli altri attori”, sottolinea Clapham, e la dinamica centro-periferia si è rimessa in moto esigendo un dazio molto pesante: il risentimento nazionale pan-somalo, che talora si è colorato di pulsioni islamiste, le tensioni federali etiopi contro e dentro le identità centrali Tigray e Amhara, tensioni ormai estese attraverso il sistema del Nilo al Sud Sudan-Darfur, la deriva etnica ramificata fino alla Repubblica Centroafricana in guerra, sempre più snodo della crisi tra i due grandi bacini, Nilo e Congo, ma in realtà già retroguardia del fronte caldo nordafricano. Queste ramificazioni sono presenti da tempo alla diplomazia occidentale, e a quella italiana in particolare.

Sull’altra sponda dello stretto di Bab el Mandab, la guerra in Yemen lascia intravvedere tra le rovine l’ennesimo tentativo di consolidare l’egemonia saudita sulla Penisola e sul Mar Rosso e da qui, in ultima analisi, condizionare il Corno d’Africa. Probabilmente è questo il paradigma geopolitico che si troverà nel prossimo futuro di fronte la diplomazia occidentale e cinese nell’area: un confronto tra dinamiche Nord-Sud, che in qualche modo favoriscano una difficoltosa ma ambiziosa integrazione non-egemonica attorno all’Etiopia nella forma inedita di un federalismo macroregionale, e le spinte Est-Ovest che l’eco dell’irrisolto conflitto Riad-Teheran-Dubai provoca fino a germinare tentazioni semi-indipendentiste nella splendida, e strategicamente fin troppo appetibile, isola yemenita di Socotra.

Il modernismo dello “Stato democratico sviluppista”, la formula di Meles Zenawi a lungo ideologia del post-marxismo di Addis Abeba (in realtà narrazione dominante di tutte le élites post-rivoluzionarie emerse dalla grande implosione regionale del 1991), non potrà a ogni modo essere la risposta al tradizionalismo agrario delle periferie islamiste. Non sarà più attorno a questa “narrazione” che un Corno d’Africa pacificato e unificato potrà giocare le sue carte nel XXI secolo. La federazione del Corno d’Africa: forse un sogno, ma proprio per le sue ramificazioni fin su al “vicino estero” europeo, tanto più necessario come prospettiva di stabilizzazione e di protagonismo regionale africano in un sistema-mondo meno sbilanciato a Nord.

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