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Il 9 maggio scorso si celebrava l’ottantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale. Mentre Putin assisteva con il presidente cinese Xi Jinping alla parata militare di Mosca e Donald Trump annunciava l’istituzione di un victory day per la commemorazione di un successo “soprattutto americano”, Francia e Polonia firmavano nella piccola cittadina di Nancy un nuovo patto difensivo. Il giorno precedente Macron aveva annunciato con il neocancelliere tedesco Merz la riattivazione del consiglio militare franco-tedesco, mentre il giorno successivo era a Kyiv con i rappresentanti di Regno Unito, Germania e Polonia, per parlare di garanzie di sicurezza per l’Ucraina.

La settimana prima Polonia e Germania avevano reso nota la richiesta di allargare l’ombrello delle armi atomiche francesi ai due Paesi. Questi sviluppi frenetici dovrebbero far capire anche ai più scettici quanto l’Unione Europea, attualmente impegnata nel piano di riarmo Readiness 2030, sul tema Difesa non sia presa da nessuna furia bellicista ma stia in realtà inseguendo i governi nazionali e giocando un ruolo da facilitatrice industriale in un settore in cui non ha di fatto competenze. L’assenza di un’Europa della difesa, unita all’ incertezza legata agli Stati Uniti, sta lasciando un vuoto di sicurezza sul continente che, ovviamente, riempiono gli attori tradizionali: il Regno Unito, la Francia, la Germania e, soprattutto per la sua posizione strategica, la Polonia.

L’unico motivo per cui l’asse tra queste nazioni era emerso solo parzialmente finora erano le debolezze interne di ben tre governi sui quattro citati, nonché l’abilità della Nato a rimanere sullo sfondo del conflitto ucraino senza mettere in discussione la solidità dell’alleanza (cosa che ha spinto tra l’altro Finlandia e Svezia ad aderire). Ora il quadro è cambiato e l’Europa cerca nuovi equilibri. In questo scenario, le polemiche italiane sull’assenza o presenza di Meloni ai vertici dei quattro (ma più spesso in realtà dei tre – tanto da essere soprannominato E3) sono, come sempre, una cortina di fumo che ci impedisce di vedere i problemi strutturali che riguardano il nostro Paese. Il ruolo italiano in un’Europa che si preoccupa di Difesa rischia sempre di essere marginale per un problema politico intrinseco alla politica nazionale e che comporta due impedimenti pratici. Il problema politico è la convinzione radicata nell’opinione pubblica che per l’Italia non esistano nel mondo minacce di sicurezza e che la politica estera sia di fatto una politica commerciale. Questa difficoltà politica per l’Italia causa un primo impedimento generando dubbi sull’impegno dei nostri governi a prestare sostegno agli alleati europei in caso di necessità, soprattutto in uno scenario di conflitto simmetrico (e non solo con la Russia). Da qui discende il secondo e più noto impedimento, ossia lo scarso finanziamento per le forze armate, motivato anche da noti problemi di bilancio. In tal senso, che si parli di “forza di rassicurazione” o di “coalizione dei volenterosi” o semplicemente di “garanzie di sicurezza” poco cambia; il ruolo italiano nella nuova architettura europea è percepito come non indispensabile. La Francia, al contrario, in un’Europa dove le nazioni tornano protagoniste come quella attuale, diventa un attore indispensabile. La credibilità francese non è dovuta solo al mero finanziamento per le forze armate (non molto dissimile all’Italia per dimensione, anche se migliore per qualità delle voci di spesa), ma soprattutto per l’abilità di presentare Parigi come un interlocutore credibile e capace di avvalersi di alcune capacità che nessun Paese europeo può vantare (il nucleare appunto).

L’Europa di Parigi ovviamente non è l’Europa di Bruxelles. Macron ha infatti continuato e rafforzato la tradizione francese di ingaggiare i partner o in formato bilaterale con trattati ad hoc (per esempio con l’Italia il Trattato del Quirinale del 2021) o con consultazioni più ampie la cui geografia è decisa a Parigi (come la Comunità politica europea). In entrambi i casi, emerge un’Europa così detta à la carte, dove il Presidente francese decide, a seconda dell’argomento, chi si siede al tavolo. Nell’Europa delle nazioni, basata sui rapporti di forza e i fondamentali economici, l’Italia ha un problema strutturale a far udire la propria voce.

Proprio per evitarlo, la politica estera nazionale da ormai 80 anni segue la doppia direttrice Bruxelles-Washington; in entrambi i contesti il peso dell’Italia è determinato dal sistema Paese e non può essere discrezionale a seconda della congiuntura politica o economica (come, per esempio, sottolineò bene Meloni nel caso della nomina di Fitto). In un quadro di indebolimento di Ue e Nato la strada per Meloni è quindi obbligata e porta all’iconico incontro di domenica con il vicepresidente americano JD Vance e Ursula von der Leyen.

Il motivo del meeting, sulla carta, era la politica commerciale, ma già dalle battute iniziali si è capito che il tema della sicurezza e della difesa sarebbe stato parte delle discussioni Usa-Ue. Il governo Meloni, insomma, al di là delle critiche, sta seguendo una politica estera perfettamente in linea con la tradizione euro-atlantica e tesa ad arginare un’Europa delle nazioni in cui l’Italia ha ben poco da guadagnare.

 

La politica estera di Meloni? Fedele alla tradizione euro-atlantica. Castiglioni spiega perché

Di Federico Castiglioni

Il governo Meloni, al di là delle critiche, sta seguendo una politica estera perfettamente in linea con la tradizione euro-atlantica e tesa ad arginare un’Europa delle nazioni in cui l’Italia ha ben poco da guadagnare. L’analisi di Federico Castiglioni, ricercatore nel programma “Ue, politica e istituzioni” dell’Istituto Affari Internazionali

 

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