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Di fronte al Senato, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha chiarito il posizionamento internazionale dell’Italia ed enunciato i principi della politica estera del Governo. Atlantismo ed Europeismo, multilateralismo, proiezione verso il Mediterraneo allargato e l’Africa con particolare attenzione alla Libia, dual-track per la distensione dei rapporti con la Russia e la Turchia. Ha poi espresso l’intenzione di consolidare la collaborazione con i partner europei della sponda mediterranea e rafforzare il rapporto strategico con i Paesi con cui la nostra economia è maggiormente integrata: la Francia e la Germania. Quest’ultimo aspetto recupera un importante dibattito sulla necessità di un rapprochement tra Roma e Parigi che richiede nondimeno alcune riflessioni.

Quando nei primi anni Sessanta fu chiaro che con l’ingresso della Gran Bretagna nella CEE i Paesi europei avrebbero accettato il paradigma di una Europa atlantica, la risposta della Francia gollista fu quella di legarsi alla Germania federale, non tramite un asse ma piuttosto tramite una fisarmonica attorno alla quale fosse possibile immaginare la costruzione di una Europa svincolata dagli americani e che garantisse tanto lo status della Francia quanto la sua sicurezza.

Ma la criticità di questa fisarmonica stava proprio nelle differenti motivazioni che l’avevano resa possibile, dimostrando che l’accordo era, e rimane, strumentale ad obiettivi diversi, non immediatamente riferibili al rapporto tra i due paesi e nemmeno alla compensazione delle loro divergenze. Di fatto, così come il trattato del 1963 servì, dal punto di vista francese, a negare alla politica anglo-americana la sua importanza per la sicurezza europea (mentre Adenauer volle servirsene per premere sul governo americano affinché non cedesse sulla questione tedesca), allo stesso modo il trattato di Aquisgrana del 2019 fu strumentale a nascondere le divergenze tra Parigi e Berlino più che a rafforzarne le convergenze. Nelle falle di questo rapporto sussistono le condizioni per un allineamento tra Francia e Italia.

Esistono numerosi motivi di rivalità tra Roma e Parigi: dalle politiche migratorie alla crisi libica, da quelle industriali (programma F-35, STX-Fincantieri) alle scalate ostili (Vivendi, Mediaset, Telecom), fino alla penetrazione finanziaria in settori strategici dell’economia (Ubi Banca, Mediobanca, Generali).

Parimenti, i due Paesi vanno d’accordo sulla necessità di normalizzare i rapporti con la Russia, sul bisogno di controbilanciare la Germania e rilanciare il progetto europeo, sulla sicurezza e il controterrorismo in Siria e nel Sahel, sul contenimento della Turchia. Proprio dall’analisi di queste possibili convergenze e dalla necessità indifferibile di provvedere a delimitare la rivalità, il governo di Paolo Gentiloni propose un negoziato che si sarebbe dovuto concludere con la firma di un Trattato del Quirinale, la versione italo-francese dell’accordo del 1963.

Dopo diverse interruzioni, una commissione bilaterale di saggi è stata incaricata di lavorare ad un documento di cui, al momento, non si conoscono bozze ma solo indicazioni generiche di intenti. In ogni caso, è possibile provare a ragionare sulla cornice generale dell’accordo e sui suoi impliciti. Dal punto di vista italiano, quel trattato dovrebbe servire a creare un meccanismo di consultazione tra Parigi e Roma che permetta a quest’ultima di essere il ʺterzoʺ dell’Unione Europea.

Per l’Eliseo, al contrario, quell’accordo permetterebbe non soltanto di allineare in senso filo-francese la politica europea e regionale dell’Italia, ma anche di segnalare alla Germania la volontà di non rassegnarsi al ruolo di perenne secondo. Tuttavia, se il documento dovesse effettivamente riflettere quello del 1963 rischierebbe di indebolire ulteriormente l’architettura europea rendendo scoperta la necessità, avvertita da alcuni suoi importanti membri, di ricorrere a nuove geometrie di potere. Inoltre, legarsi a doppio nodo a Parigi potrebbe non significare automaticamente per Roma la consacrazione ʺa terzoʺ ma correre il rischio opposto di un ridimensionamento o di un ruolo formalmente subordinato.

Sicché un rapprochement franco-italiano dovrebbe forse passare per una sorta di preventivo gentlemen’s agreement. Serve un preambolo che stabilisca le regole del gioco, un accordo-quadro che fissi i paletti, che delimiti l’area dei reciproci interessi intangibili senza per questo trasformarsi in una prigione giuridica. Il diavolo è nei dettagli, ed un trattato negoziato sulla spinta dell’urgenza potrebbe essere firmato con superficialità.

Al contrario, una entente cordiale tra i due Paesi può rappresentare la base da cui prefigurare un successivo accordo con la Germania per la nascita di una Intesa (Berlino-Parigi-Roma) da porre alla testa di un processo di rilancio del progetto europeo. Se chiaramente definita, una entente italo-francese del genere avrebbe forza e portata politica senza tradursi nella subordinazione formale dell’Italia alla fisarmonica franco-tedesca.

Un accordo di questo tipo dovrà comunque mettere sul tavolo interessi materiali, non retorica. La soluzione deve essere dunque multilivello, affiancando all’accordo-quadro che fissi le regole del gioco una serie di ʺalleanze tematicheʺ con perimetro operativo variabile: dal contro-terrorismo in Sahel e Siria al contenimento della Turchia, dalla détente con la Russia alle politiche migratorie fino ai rapporti con la Cina.

L’Europa ha bisogno di una rifondazione ma il gruppo dei rifondatori non è ancora nato: tanto l’Italia quanto la Francia avrebbero tutto l’interesse a farne parte sin dal principio, agendo come motori politici sulla base di un accordo preliminare cha riconosca ad entrambe sufficienti garanzie di equità e rispetto dei reciproci interessi.

 

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